L’industria dei bimbi di Chernobyl

Ma si può sapere quanti sono i bambini di Chernobyl? E, soprattutto, perché non crescono mai? Domande impopolari, me ne rendo ben conto, ma rese attuali dall’angosciante vicenda dei coniugi liguri che si rifiutavano di restituire Maria, la piccola bielorussa ospitata a casa loro per un «soggiorno di risanamento». Il disastro nella centrale nucleare dell’Ucraina accadde il 26 aprile 1986. Questo significa che i bambini di Chernobyl nati sotto la nube radioattiva hanno oggi intorno ai 20 anni. Cioè sono adulti di Chernobyl. Ciò nonostante continuano ad arrivare in Italia bambini di Chernobyl. Si calcola che negli ultimi dieci anni ne siano stati ospitati presso famiglie italiane almeno 300.000. Ci sono associazioni per i bambini di Chernobyl praticamente in ogni città, paese, frazione, quartiere d’Italia, da Cagliari a Martina Franca, da Bolzano a Cerignola, da Lentate a Lanciano, da Castelmaggiore a Martinsicuro, da Orbassano a Terni, da Alpignano a Barletta, da Senigallia a Noci, da Domodossola a Foggia, da Bizzuno a Cosenza, da Fano a Mugnano, da Castelmassa a Noicottaro. Alla sola Avib, la federazione delle associazioni di volontariato italiane per la Bielorussia, fanno capo 85 sodalizi. Si tratta spesso di Onlus (organizzazioni non lucrative di utilità sociale) che ricevono contributi da Comuni, Province, Regioni e che riscuotono offerte deducibili dalle tasse o il 5 per mille dell’Irpef a titolo di donazione liberale.
Per ogni bambino di Chernobyl che arriva in Italia vi sono disposizioni (emanate dal Comitato minori stranieri) da osservare, polizze assicurative sanitarie da stipulare, moduli da compilare, accompagnatori di lingua italiana da arruolare. In termini di impegno, tempo e denaro, gli stessi impicci che un piccolo imprenditore deve affrontare per mandare avanti la sua azienda. E servono uffici, impiegati, telefoni, fax, siti internet, conti correnti bancari. Com’è possibile che un gruppo di benefattori di Desenzano del Garda possa permettersi una sede persino in Bielorussia?
Le associazioni per i bambini di Chernobyl sostengono che «secondo uno studio dell’Enea» – sarà l’italiano Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente oppure l’European nuclear energy agency? – «un mese d’ospitalità in Italia con un’alimentazione priva di radionuclidi permette di perdere dal 30 al 50% della radioattività assorbita, riducendo così il rischio d’essere colpiti da tumore tiroideo, leucemia e altre patologie collegabili alle conseguenze dell’incidente». Questo significa che con tre o due soggiorni i bambini perdono il 100% della radioattività? Magnifico. Considerata la mole di arrivi, l’obiettivo è quasi raggiunto. Ma com’è che alcuni miei parenti ospitano da anni lo stesso bambino? Per guarirlo ancora di più? E nessuno pensa ai giovani di Chernobyl? Quelli non hanno bisogno d’aria buona, non rischiano di morire?
Chiariamo bene: non v’è nulla di male, anzi!, nell’accogliere periodicamente a casa propria bambini stranieri orfani, poveri, già malati o potenzialmente in pericolo. A patto che questi intensi traffici umani da e per l’Ucraina, la Bielorussia e la Russia non creino crudeli illusioni o, quel che è peggio, non mascherino un mercato delle adozioni facili. Stefania Prestigiacomo, l’ex ministro per le Pari opportunità che aveva la delega sulle adozioni internazionali, ha ammesso che i bambini di Chernobyl «erano un numero limitato, nell’ordine di qualche centinaio, per un progetto ben mirato: oggi sono diventati circa 30.000». Le stesse associazioni riconoscono che ormai non si riesce più a stabilire se 600 di questi bambini di Chernobyl siano da considerarsi italiani o bielorussi, dal momento che trascorrono 150 giorni l’anno da noi e 215 nel loro Paese. A leggere una documentata inchiesta di Panorama, sorge il sospetto di trovarsi in presenza d’un business assai fiorente: tre milioni d’italiani coinvolti, capifamiglia che chiedono l’anticipo della liquidazione o accendono mutui per avere il «loro» bambino, un giro vorticoso di mance perché il «figlio» pendolare sia trattato con cura negli istituti dove vive abitualmente in attesa di trasferirsi per sempre in Italia, metà del fatturato della Belavia (la compagnia di bandiera bielorussa) che scaturisce dai viaggi Roma-Minsk.
Ci è stato spiegato che i bambini di Chernobyl vengono al mare in Italia perché hanno bisogno dello iodio per rimettere in sesto le loro tiroidi. Allora com’è che alcune delle associazioni ospitanti hanno sede a Revò (Trento), 724 metri d’altitudine, Pennabilli (Pesaro), 629 metri, Saint-Christophe (Aosta), 619 metri? Senza contare che non c’è mica il solo Belpaese a essersi fatto carico della sorte dei bambini di Chernobyl. Esistono organizzazioni di volontariato a loro dedicate in quasi tutti gli Stati d’Europa, negli Usa, in Canada, financo in Giappone. Solo che quelle censite dalla Virtual guide to Belarus risultano 10 in Canada, 25 negli Stati Uniti e ben 55 in Italia: possibile che la generosità si sia concentrata in una nazione che ha un territorio 65 volte più piccolo delle prime due? E non s’è varato un Chernobyl children’s project a cura delle Nazioni Unite? E il Chernobyl children’s project international con sede a New York di che cosa si occuperà? E il Canadian relief fund for child victims in Belarus? E il Chernobyl children’s project del Regno Unito? Talmente debole, è la loro azione, da aver bisogno del pervasivo supporto italico?
Ma poi sarà veramente drammatica la situazione a vent’anni dal disastro atomico? Sono andato a vedermi le statistiche dell’Organizzazione mondiale della sanità. Nel rapporto annuale pubblicato dall’Oms ho trovato raccomandazioni per screening periodici, terapie ormonali e radioiodioterapie sulla popolazione a rischio, ma nessun riferimento alla necessità di salutari soggiorni all’estero, siano essi marini o montani.
Fra il 1986 e il 2002, nella fascia d’età 0-14 anni, la più colpita, l’Oms ha riscontrato 1.762 casi di cancro alla tiroide in Ucraina e 1.711 in Bielorussia. La mortalità infantile in Bielorussia risulta del 15 per mille, mentre è sorprendentemente più alta in Ucraina (22) e Russia (19), che pure furono meno contaminate dalla nube nucleare. Infine i decessi per tumori solidi e leucemie, fra gli evacuati di tutte le età nella zona entro 30 chilometri dal reattore esploso, sono stati 65 (pari allo 0,05%) nei primi dieci anni. La predizione è di 5 nuovi decessi (0,004%) per gli anni a venire.
L’esposizione alle radiazioni degli abitanti nella medesima zona fu, sempre secondo l’Oms, di 10 mSv (millisievert). Non chiedetemi che cosa sono i millisievert: so soltanto che il fondo naturale di radioattività cui è sottoposta la popolazione italiana è, mediamente, di 1 mSv.

Però, se vogliamo valutare per ordine di grandezza, leggetevi questa affermazione riferita alle radiazioni ionizzanti sopportate dal personale in servizio sugli aerei e contenuta in una proposta di legge presentata nel 1996 alla Camera da due deputati al di sopra di ogni sospetto, gli antinuclearisti verdi Gianni Mattioli e Massimo Scalia: «Un membro d’equipaggio può assorbire una dose annuale che può andare da qualche mSv (millisievert) per equipaggi impiegati su voli a corto e medio raggio, sino a una decina di mSv per i voli a lungo raggio». C’è qualcuno disposto ad adottare i bambini (un po’ cresciuti) dell’Alitalia?
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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