di Lucio d'Arcangelo
Lingue che nascono, che muoiono o che crescono a dismisura. Ecco la sorte delle lingue. E l’inglese ha scelto per destino manifesto l’ultima via. Lo proverebbe un rapporto appena realizzato congiuntamente dall’università di Harvard e Google le cui conclusioni hanno fatto discutere i giornali inglesi di ieri a partire dall’Independent. I risultati sono i seguenti. Tra le lingue europee, l’inglese è quella che ha mostrato maggiore ricettività, ogni hanno ormai incorpora 8500 neologismi. Ma di tutte queste parole, tra cui moltissime legate all’ambito tecnologico («To google»: «googolare», cercare o cercarsi sul più noto motore di ricerca), il britannico medio ne conosce, statistiche alla mano, circa 75mila e ne usa comunemente soltanto 50mila. Insomma l’inglese è lingua viva ma afflitta da bulimia lessicale, e da frazionamento linguistico.
Non è una novità assoluta, questa lingua ha storicamente lasciato penetrare nel suo lessico molti termini neolatini. All’eredità germanica, specie per i termini colti, è da secoli subentrata l’influenza delle lingue romanze, per cui ad esempio troviamo parole come apparition e, a fronte del tedesco Geistwissenschaft, philosophy. Tanto che moltissimi, se non tutti, gli anglicismi penetrati nell’italiano sono parole che l’inglese ha adottato da altre lingue, rispedendole poi al mittente con un significato leggermente o completamente diverso. (Esempio classico, la parola manager, derivata dal toscano «maneggio»). Data poi l’estensione dell’Impero, sono poche le lingue che non abbiano contribuito al vocabolario inglese. I britannici hanno sempre attuato una politica dei confini aperti in fatto di termini stranieri, facilitata dalla natura della loro lingua, che, impoveritasi morfologicamente, non deve «adattare» la parola importata, ma spesso può lasciarla, a differenza di altre lingue, così com’è.
L’arricchimento lessicale di cui si parla è anche e soprattutto geografico: l’inglese si è suddiviso da tempo in una varietà di «inglesi» parlati, a esempio, in Australia, in Nuova Zelanda, in India, per tacere dei molti Paesi africani in cui è lingua ufficiale.
Come osservava David Crystal, l’inglese sembra aver superato quella massa critica di parlanti, oltre la quale «si rivela impossibile per un singolo gruppo o per un’alleanza fra gruppi frenarne la crescita o influenzarne il futuro». Più che di una crescita si tratta di una deriva che ha provocato allarmi soprattutto nel Regno Unito, e il global english ne è solo il sintomo più vistoso. Oggi non si contano coloro che per lavoro o per turismo fanno uso di un inglese per così dire spiccio, non solo con gli anglofoni, ma anche con quelli che parlano altre lingue. Questo language in action è diventato una lingua franca in ogni senso, soggetta cioè a semplificarsi e «imbarbarirsi» tanto da non essere compresa più dagli stessi anglosassoni.
«Imperialismo linguistico» è anche l’illusione di dominare il mondo con una lingua che non è più tua, o perché è “rifermentata” in altri linguaggi come l’inglese dell’India, o perché è divenuta, per dirla con Halliday, «un’antilingua, una lingua matrigna», se proprio non si vuole recitare l’addio del poeta americano Ogden Nash: «Farewell, farewell to my beloved language,/ Once English, now a vile orangutanguage». («Addio, addio mia amata lingua,/ una volta eri l’inglese, ora sei un vile linguaggio scimmiesco»). Questo imbarbarimento non risiede soltanto nella tendenza ad usare l’inglese in modo informale, agrammaticale, come farebbe un cinese con l’italiano, ma anche nell’indebolimento di quei riferimenti culturali che costituiscono il naturale presupposto di ogni linguaggio e che, quando mancano del tutto come nelle lingue artificiali, rendono inefficace la comunicazione.
Oggi si è soliti deplorare la «glottofagia» dell’inglese, a esempio nei confronti delle lingue aborigene dell’Australia. Ma ciò non toglie che molti altri idiomi, anche «piccoli», oppongano una strenua resistenza alla globalizzazione. Le lingue del pianeta ammontano a 6.500, ma la metà ha meno di 10mila parlanti e un quarto del totale meno di mille.
In queste condizioni è facile predirne la scomparsa nel giro di due secoli, né ci si può consolare, come fanno di docenti di Harvard, con il tok-psin, che è una lingua di transizione, un «creolo», misto di inglese e melanesiano, o col fatto che l’ebraico e il basco siano tornati a vivere con una rianimazione forzata e molto politica.
Quanto all’inglese messo all’ingrasso: ricordandosi che Shakespeare utilizzava meno di ventimila vocaboli (l’inglese elisabettiano contava 150mila parole) di fronte al milione di parole del giorno d’oggi, tante ne hanno contate a Harvard, viene da dire che la dimensione della botte non fa la qualità del vino.
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