L’INTERVISTA 4 CRISTINA MUTI

Da quando le è stata conferita l’Aquila di Ferro a Ravenna i suoi fans la chiamano la Lady di ferro. Un appellativo che non piace a Cristina Mazzavillani, moglie di Riccardo Muti, anima di quel Ravenna Festival che è ormai una pietra miliare della cultura di casa nostra. È quindi d’obbligo provocarla: come e perché rifiuta questa definizione? «Perché Lady di Ferro era Margaret Thatcher, non io. Che faccio cultura e non politica. E se lotto è solo per restituire a Ravenna, la mia città natale, il posto che le spetta».
Può spiegarsi meglio?
«Al di là dell’aspetto artistico che tutto il mondo ci invidia, ci sono ancora troppi bellissimi luoghi qua attorno, caduti in disuso per ignoranza e incuria, che rischiano di essere divorati dal cemento, annullati con un tratto di penna, eliminati dalla faccia della terra. Come ad esempio...».
Ad esempio?
«L’antica sede del Tiro a Segno, un luogo fantastico annegato tra i pruni e le erbacce, una fetta di Romagna adorata da Fellini e dai miei zii che ne fecero nel primo dopoguerra un simbolo di affratellamento. Quando mesi fa ho scoperto che esisteva ancora, sono salita su quel palcoscenico in disarmo per trovare l’ispirazione adatta a Tenebrae».
Tenebrae? Che cos'è mai?
«È il titolo dell'opera di Adriano Guarnieri su testi di Massimo Cacciari che è andata in scena quest'estate a Ravenna, ma sul palco dell’Alighieri, il nostro teatro d’opera».
Come no, me n’ero scordato! A proposito, è vero che la la rivedremo presto in un'edizione definitiva?
«Di definitivo al mondo c’è solo la scomparsa fisica di un essere, a quanto ne sappiamo. Le confermo invece che oggi al Teatro Nazionale, lo spazio che l’Opera di Roma riserva alla musica nuova, sarà possibile sfruttare al massimo le risorse del digitale nel mirabile gioco di specchi creato da Ezio Antonelli. Io adoro la commistione del suono acustico alla voce umana e in questa occasione, fanatica come sono della tecnica, mi sono data anche alla sperimentazione elettronica».
Può dirmi in poche parole cosa vedremo e sentiremo in un titolo come «Tenebrae»,che sembra strappato a Dario Argento?
«E’ la storia dell’eterno connubio tra oscurità e luce, notte e giorno, morte e vita. Il mio libretto consiste in una libera scelta di splendidi pezzi desunti sì dai testi di Cacciari. Ma anche da quelle libere suggestioni che derivano dai miei studi».
Può essere più esplicita?
«Pensi al sottotitolo, che è “Pietra di diaspro”, e capirà meglio ciò che io e Guarnieri abbiamo inteso fare».
Mi dica, sono tutto orecchi.


«La pietra è il segno del limite del mondo come dichiara San Giovanni nell’Apocalisse e come ci narra in un suo poema Paul Celan. Che io ho voluto articolare tutt'uno ai disperati lamenti di Gesualdo da Venosa e, per quanto riguarda la parte visiva, alle ombre e alle luci del Caravaggio».

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