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L’INTERVISTA 4 IL RICERCATORE

È come negli Stati Uniti, ma è successo a Pisa e per la ricerca scientifica italiana è stato come mettere la prima pietra per costruire il futuro. È successo alla Scuola Superiore Sant’Anna, dove ieri alle 17.30 in punto è stata messa la firma sul «Laboratorio di Scienze Mediche - Area di Cardiologia Sperimentale sponsorizzato dal Gruppo Intini-SMA» che opererà in convenzione con la Fondazione Cnr-Regione Toscana Monasterio. E Intini sta per l’imprenditore pugliese che ha stanziato il contributo per la ricerca. Come in America, appunto.
L’idea nasce dal Professor Fabio Recchia, il direttore del laboratorio, che dopo aver lavorato nove anni a New York ha deciso di fare il pendolare tra la Big Apple e la Toscana con la certezza che qui da noi non manca nulla. «E quando sono tornato avevo un’idea in testa: basta aspettare soldi a pioggia dallo Stato, basta stare seduti e lamentarsi. Facciamo come negli States: coinvolgiamo i privati». Missione compiuta.
Professor Recchia, è stata dura?
«In effetti ci ho messo un po’ di tempo. Poi, le coincidenze...».
Ovvero?
«Ho incontrato per caso Enrico Intini, è del mio stesso paese d’origine, Noci in provincia di Bari. Non poteva dirmi di no».
Come l’ha convinto?
«Lui ha un grande gruppo nel settore costruzioni, tecnologia e sicurezza. Insomma, uno da sempre interessato all’innovazione. E voleva investire in qualcosa di positivo».
Dunque la ricerca scientifica...
«Infatti questa è la grande novità. Gli ho detto: “Invece di spendere soldi per mettere il nome sulla maglia di una squadra di calcio, perché non li spendi per una cosa migliore?”. Quindi l’ho portato a Pisa e si è convinto».
Sono arrivati i soldi, insomma.
«Sono arrivati 750mila euro in tre anni: magari a qualcuno sembrano pochi, per noi invece sono tantissimi. E se ci saranno sviluppi industriali Intini avrà tutti i diritti di sfruttarli. Certo, in America ci sono realtà come Harvard che ricevono 20 miliardi l’anno, dico miliardi, di donazioni. Ma se qui tutti facessero come Intini sono convinto che bagneremmo il naso a molte loro università».
Ci si può provare.
«Certo, ma ci vuole più convinzione. Sia nell’ambito biomedico, il mio, ma anche in generale: il governo si deve adoperare per una riforma vera, che premi la meritocrazia e che dia spazio ai ricercatori migliori».
E come si fa?
«Come in America: lì ci si valuta tra colleghi, la concorrenza è spietata. Qui invece si ha paura di essere giudicati e ci si oppone a qualunque cambiamento».
Consigli ai suoi colleghi?
«Premesso che ci sono alcune situazioni indiscutibili, persone che vorrebbero fare ma lavorano in strutture fatiscenti, con poche risorse o sono sottoposti a una didattica asfissiante. Però poi se il rettore della Sapienza dice che molti suoi ricercatori devono fare di più, parla con cognizione di causa».
Insomma: il suo è un vero e proprio esempio.
«Questo è un accordo che spero sia da apripista nel settore. Certo, il pubblico deve fare di più: pensi che l’Unione europea stanzia ogni anno per la ricerca 8-900 milioni di euro, mentre in America l’investimento del governo è di 31 miliardi di dollari. Dico miliardi».
Però con i privati...
«Però con gli imprenditori si potrebbe fare molto: chiedo a chi se lo può permettere di aver fiducia nell’università. E chiedo ai miei colleghi di non stare seduti a lamentarsi e ad aspettare che qualcuno li aiuti dall’alto. Cercando si trova».
Lei dice che ce la faremo?
«I ricercatori italiani che lavorano all’estero sono tra i migliori. Un esempio: l’editore di Circulation research, la Bibbia del mio campo di ricerca, si chiama Roberto Bolli. Le dice qualcosa?».
Quindi?
«Quindi aspettiamo segnali: il governo si impegni in una vera riforma che dia sostegno alla ricerca e sia davvero meritocratica.

Il resto tocca a noi».

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