L’INTERVISTA 4 TOM PIAZZA

Non è che Bob Dylan se ne esca tutti i giorni a sottolineare che un dato romanziere «possiede una scrittura elettrica, nervosa, capace di portare alla luce emozioni che non riesco a definire», ma nel caso di Tom Piazza l’ha fatto. Probabile che si tratti di un’affinità elettiva di natura musicale. Infatti, prima di pubblicare La città che era (Marco Tropea, pagg. 416, euro 18,90), romanzo dedicato a New Orleans messa in ginocchio nel 2005 dall’uragano Katrina, Piazza ha scritto in lungo e in largo di blues, bluegrass, country e jazz. Oltre che della città dove vive, ovviamente: proprio quella seducente New Orleans dei misteri che fa da sfondo, giusto per menzionare un titolo, alla fuga da se stesso di Mickey Rourke in Angel Heart. Ma anche, per tornare a vicende nostrane ancora latenti nell’immaginario collettivo, alla scomparsa di Ylenia Carrisi nel quartiere francese all’inizio del gennaio 1994.
Mr. Piazza, perché ha deciso di partecipare alla cosiddetta post-Katrina literature, centrata sull’analisi delle conseguenze sociali e psicologiche dell’uragano?
«Non è stata una scelta. Vivo a New Orleans e la catastrofe mi ha colpito direttamente tanto quanto ha colpito la città nel suo senso di comunità e continuità con il passato e il futuro. Poiché sono uno scrittore, scrivere è il modo più naturale che ho per reagire a un’esperienza intensa e complessa. Le devastazioni di Katrina, poi, hanno fatto emergere quanto di meglio e di peggio c’è nei miei concittadini. Questo lato diverso o nascosto delle persone che affiora in momenti difficili è per un romanziere molto interessante».
Ha trovato difficoltà nella stesura del libro?
«L’ostacolo principale è stato organizzarmi. Mentre raccontavo le vicende dei miei personaggi vivevo io stesso le conseguenze dell’uragano: dovevo riparare la mia casa, sentire di amici che avevano lasciato la città, aiutarne altri. Era troppo difficile scrivere il romanzo al mattino e poi uscire e vivere quelle stesse storie nel resto della giornata. Ho dovuto lasciare New Orleans per periodi di uno o due mesi per portare avanti il libro. Oltretutto, dovevo sodalizzare con i miei personaggi come Alice, la quale dopo Katrina prende la decisione di portare via la sua famiglia da New Orleans. Quelli come me che hanno deciso di restare hanno avuto molte difficoltà a capire chi ha voluto andarsene».
Ritiene che oggi, magari a Hollywood, ci sia un uso strumentale della catastrofe e della sua spettacolarità intrinseca? Che la fetta di pubblico «al sicuro» goda del racconto delle disgrazie altrui?
«Qualsiasi dimensione “spettacolare” di una storia tende ad aumentarne le vendite. Però un cattivo scrittore o regista può decidere di usare gli aspetti superficiali di una catastrofe per mascherare la mancanza di introspezione dei suoi personaggi. Ho messo molto impegno nel rimuovere la sensazione di “sicurezza” dal lettore. Volevo raggiungere quel tipo di immediatezza che fa sembrare a chi legge di vivere un’esperienza, e non di vederla da lontano. Se si chiude un libro nelle stesse condizioni interiori in cui lo si è aperto, quel libro è un fallimento. Non amo i romanzi che lusingano i preconcetti del lettore o dei giornalisti».
A proposito, i mass media hanno fatto un buon lavoro nel raccontare in diretta la catastrofe?
«Abbastanza buono. È stato in quel frangente che i media hanno fatto un giro di boa, acquisendo la capacità di criticare le politiche dell’amministrazione di George W. Bush. Prima, c’era reticenza. Quasi una paralisi. Ma dopo Katrina il governo non poteva più nascondere i propri errori facendo leva sul patriottismo. Può sembrare esagerato, ma penso che, retrospettivamente, Katrina sia stato il punto di svolta nel modo di trattare la guerra in Irak da parte dei media americani».
Ma c’è una mancanza giornalistica che ha riscontrato?
«Avrebbero potuto fare di meglio nel chiarire all’opinione pubblica che la catastrofe non è stata causata tanto dal vento e dalla pioggia, quanto dal cedimento delle dighe: costruite, dopotutto, dal governo federale. È stato il cedimento delle dighe a sommergere l’80 per cento della città, non l’uragano».
Paul Virilio, in L’università del disastro, parla di una possibile Facoltà accademica dove si studia per portare avanti quel progresso tecnico che serve a curare i mali causati dal progresso tecnico. Che ne pensa? Mi riferisco al disastro della BP nel Golfo del Messico.
«Affidarsi ad aziende orientate al profitto per trovare i rimedi ai loro errori ci mette in una condizione di svantaggio. Se esiste una micropossibilità che si verifichi un disastro e un elevato costo economico per scongiurarla, vi è una forte tendenza a correre un rischio futuro a favore di un utile certo nel presente. In America alcuni politici hanno imparato a catalizzare il sostegno per le loro politiche regressive equiparando qualsiasi forma di supervisione statale al “socialismo”. Che errore! Aggiungo che uno dei motivi principali che hanno consentito a New Orleans di riprendersi da Katrina è la resistenza della sua cultura, della sua musica, dei suoi balli e della sua cucina. La cultura di New Orleans si basa su una risposta piena di grazia e sprezzante alla mortalità».
Vivessimo tutti come gli americani, dice sempre Virilio, ci vorrebbero cinque pianeti Terra...
«Questo è chiaro già da decenni, limitatamente all’uso del termine “americano” quale sinonimo di consumismo spudorato. È un’osservazione troppo generica per essere utile. Penso che vi sarebbero conseguenze molto negative anche se tutti vivessimo come gli inglesi, i cinesi, i francesi o i kenioti».
Ultima domanda. Che musica ascolta in questi giorni?
«Alcuni brani per pianoforte di Olivier Messiaen, nei quali imita il canto degli uccelli. Molto jazz per sax tenore: John Coltrane, Sonny Rollins e Hank Mobley. Mi sto riavvicinando alle sinfonie di Mahler e a Mozart, ma anche a Elvis Costello e Mose Allison.

Nel frattempo, continuo a scrivere: una raccolta di saggi sulla musica, la letteratura e la politica prima e dopo Katrina. Si intitolerà Devil Sent the Rain, titolo di un brano del cantante blues Charley Patton. E un nuovo romanzo, ancora senza titolo, ambientato in parte a New York e in parte nel Midwest».

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