L’INTERVISTA BARTEZZAGHI

Stefano Bartezzaghi è un uomo di confine, sta fra le parole e i numeri. Infatti fa l’enigmista, o meglio, è un’enigmista. Perché certe cose prima ancora di farle, le si incarna, persino nel viso, con buona pace degli anti-fisiognomici. Per il prosaico e commerciale mondo dell’editoria - che sta mille metri sotto quello dei rebus e delle sciarade - è autore di Lezioni di enigmistica, L’elmo di Don Chisciotte. Contro la mitologia della creatività, L’orizzonte verticale. Invenzione e storia del cruciverba e anche di un molto utile, almeno in riva al mare o negli azzurri limpidi pomeriggi in alta montagna, Libro dei giochi per le vacanze. Anagrammi, rebus, cruciverba, refusi, indovinelli.
Bartezzaghi, perché per alcuni scrittori i numeri sono quasi un’ossessione?
«Per sfida. La matematica - o anche solo i numeri, la loro combinatoria vertiginosa - per gli scrittori che abbiano più che un’infarinatura sull’argomento rappresenta una sfida della mente».
Questo vale anche per gli individui, per così dire, di natura paroliera anziché numerica?
«Perché no? Leggere un romanzo che abbia un coté numerico o aritmetico - e ve ne sono di bellissimi - è come leggere un romanzo sulla musica o sugli scacchi. Sono libri in cui la parola, paradossalmente, ha poco da dire, arranca. Perché se è relativamente facile descrivere un quadro, mettere in forma narrativa un’equazione, una formula - come una sinfonia o una mossa di scacchi - è tentativo arduo che a me, come lettore, affascina molto».
Ma troppi numeri non sterilizzano la narrazione? Non la rendono fredda?
«Tutt’altro. La letteratura viaggia sovente per immagini. Trovarsi in uno spazio astratto, intangibile, come quello matematico, la rende più stimolante. Almeno nei casi di opere riuscite: penso a Queneau, Perec, Calvino, persino Gadda. In quest’ultimo la matematica non aiuta a organizzare il testo, ma ci entra, proprio tra le parole. Quando Gadda racconta di un gatto che tutte le volte che cade dal balcone atterra sulle quattro zampe, ci fornisce l’equazione che spiega questo fenomeno in termini fisici. E trasfigura così il linguaggio matematico in linguaggio letterario. Penso anche a David Foster Wallace il quale, dopo aver messo l’infinito nel titolo del suo capolavoro Infinite Jest, ha scritto un saggio su questo concetto matematico: Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito».
Ma i numeri non nascondono un po’ di sfiducia verso le parole?
«Semmai ci parlano del nostro eterno desiderio interiore di universi incorrotti, ma non per questo algidi. E poi capita più spesso che siano i matematici, non gli scrittori, ad aver sfiducia nelle parole. Che siano i matematici a evitare le parole ondivaghe per spiegarsi solo con formule precise. Quand’era ancora al Quirinale Francesco Cossiga, stanco delle sue stesse esternazioni, disse: “D’ora in poi mi esprimerò solo per atti formali”. Ecco, a un matematico questi “atti formali” assicurano una verità e una precisione che per le parole sono utopia».
Ma uno scrittore, un filosofo, invece crede nelle parole!
«Non sempre. Prendiamo il caso di uno che le parole le ha studiate per tutta la vita, Ferdinand de Saussure, il fondatore della linguistica moderna e dello strutturalismo.

Ha scritto solo un libro, quando era giovane, e poi più nulla. Teneva dei corsi all’università, un insegnamento completamente orale, ma sempre pervaso da una discreta sfiducia nelle parole, e nella loro capacità di parlare di se stesse».

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