Rodolfo Parietti
da Milano
«Lha scritto il Financial Times. Dunque, è vero». È dura da conquistare, lautorevolezza. Ancor più se va costruita, giorno dopo giorno, tra gli investitori professionali: gente diffidente per vocazione, pragmatica per mestiere e solitamente abile nel separare il vero delle cifre dal verosimile dei gossip. Il foglio color salmone quella fiducia se lè conquistata, fino a diventare una bibbia per la comunità finanziaria internazionale. Perché il Ft non si legge distrattamente, ma si compulsa, si ritaglia, si archivia: tornerà utile. Perché tutto ciò che vi è riportato è, per lappunto, vero.
Ma, a volte, anche i migliori rimediano qualche stecca. Soprattutto se si muovono sul terreno infido delle statistiche macroeconomiche, ovvero in quella selva di numeri da cui governi e banche centrali fanno spesso discendere le proprie decisioni. Su questi numeri il Financial Times è incespicato lo scorso 20 marzo, quando si è occupato delleconomia italiana. Finendo per essere colto in fallo dalla Voce.info, che al direttore del Ft ha inviato una lettera (peraltro assai garbata) in cui sono riassunti errori ed omissioni.
Quello più macroscopico riguarda lammontare del nostro debito pubblico rispetto al prodotto interno lordo, uno dei parametri su cui si regge il Trattato di Maastricht e, quindi, anche il patto di stabilità nella versione riveduta e corretta nei mesi addietro. LItalia, si sa, non è messa bene. Per quanti sforzi vengano compiuti, il debito continua a rotolare sui conti pubblici come una sorta di macigno di Sisifo. Riportare al 60% il rapporto debito-pil così come imposto dai vincoli dellEuropa unita è missione, al momento, impossibile. Ma sostenere, come ha fatto il Financial Times, che il nostro debito 2005 corrisponde al 125% del pil indica una sola cosa: che la fonte utilizzata è quella sbagliata. Anche se si tratta dellOcse (lOrganizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). Che tuttavia, accanto alle proprie, pubblica anche le statistiche di Bankitalia ed Eurostat. Per intenderci, quelle che, dal punto di vista della metodologia di calcolo, si rifanno a Maastricht e sono nella sostanza le più adatte a testimoniare il livello di indebitamento di un Paese europeo. Singolare quindi che il Ft abbia ignorato (volutamente?) come il debito pubblico italiano sia «appena» pari al 106% del pil, un livello senzaltro più sostenibile rispetto a quel 125% sbandierato.
Un ulteriore utilizzo disinvolto delle fonti porta poi il quotidiano a trascurare la crescita di posti di lavoro in Italia registrata nellultimo decennio. Questo perché il Ft utilizza come parametro loccupazione più la disoccupazione in percentuale alla popolazione tra i 15 e i 64 anni, quando invece sarebbe più corretto considerare il tasso di occupazione rapportato alla popolazione in età lavorativa, con lesclusione dei senza lavoro. Non si tratta di un sistema buono per le campagne elettorali, bensì di uno degli obiettivi di Lisbona, in base al quale risulta che la penisola ha visto negli ultimi 10 anni crescere il livello degli occupati di 6-7 punti percentuali. Con un ritmo quindi superiore al resto delleuro zona, e tale da accorciare lo svantaggio patito nei confronti di Francia e Germania dal 13,5% del 1995 all8% attuale.
Il Financial Times, infine, sbaglia anche quando rappresenta, con laiuto di dati Unctad (Congresso Onu sul commercio e lo sviluppo), lItalia come una calamita capace di attirare sostanziosi capitali internazionali, in misura perfino superiore alla Germania. Le cifre del Fondo monetario sono un po diverse: il 12% del pil per il nostro Paese e il 24% per la Germania.
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