L’onore di Cesare e le colpe di Milano

Giancarlo Lehner

Io conosco bene Cesare Previti e, negli anni, ne ho potuto apprezzare coraggio e lealtà. Il suo gesto di presentarsi in carcere, ancor prima di un mandato ufficiale, farà capire anche agli ominicchi che l’hanno vigliaccamente demonizzato a mezzo stampa, lo spessore dell’uomo, la cifra del vir.
Evito di elencare i suoi meriti, rispetto a quanto ha potuto fare per Forza Italia, per non riaprire l’annosa questione di quanti, invece, liberi dai suoi terribili impegni giudiziari, per il partito hanno fatto poco, male o nulla. Sono qui, dunque, a chiosare la condanna di Cesare da parte dei giudici della Suprema Corte, i quali son tutti e notoriamente - lo dico senza ironia - men of honour.
In realtà, essi non sono stati chiamati a giudicare Previti, l’innocente chiamato colpevole sin dal 12 marzo 1996, ma l’operato della procura, dei gip, dei gup, dei giudici di Milano. Impresa da far tremare vene e polsi, giacché quella postazione da quasi tre lustri è coperta da immunità totale, come e più della presidenza della Repubblica. E se non si volesse personalizzare, evitando di tirare in ballo, con nome e cognome, l’avanguardia togata che a modo suo ha fatto la storia d’Italia, basterebbe dire che la Cassazione s’è trovata l’altro ieri a dover giudicare della morte violenta del Diritto.
I giudici della Suprema Corte, essendo pur sempre uomini, sia pure d’onore, hanno, dunque, limato, corretto, salvato, e con ragione Renato Squillante, ma ci sarebbero voluti tutti e due gli Aiace, il Telamonio e l’Oileo, per sconfessare in maniera conclamata l’operato di quanti magistrati avviarono ed incardinarono procedimenti, che in altri Paesi giuridicamente più civili, perché immuni da Controriforma, fascismo e comunismo, non sarebbero mai stati portati avanti.
Gli eccellenti togati della sesta penale, Ambrosini (presidente), Conti, Colla, Milo, Carcamo, oltre il pg Iacoviello, non se la sono sentita di condannare i pm Boccassini e Colombo, i quali, stando all’allora consigliere del Csm, Marco Pivetti, usarono sintagmi idonei a far ritenere «difformente dal vero» che esistesse un nastro ben registrato e non solo appunti auricolari.
Pivetti, togato di Md, aggiunse: «Si è trattato di una scorrettezza molto grave... Non condivido che... il pm di Milano abbia in questo caso operato bene. Non ritengo di poter dire ai magistrati che essi si possono comportare così».
I giudici di piazza Cavour non hanno calcato, altresì, la mano col gip Rossato, il quale, sei anni dopo, confessò d’aver scritto l’ordinanza decisiva del 12 marzo 1996, senza aver ascoltato neppure per un minuto la presunta «prova regina», cioè la cassetta del bar Mandara. «La chiave di volta per illuminare l’intera vicenda è costituita dalla conversazione intercettata il 2 marzo 1996, alle ore 12», scrisse Rossato in maniera difforme dal vero. La sesta penale non ha bacchettato la Cassazione stessa la quale, a suo tempo, pur dichiarando non esservi a carico degli imputati null’altro che «mere congetture», nascose la testa sotto la sabbia, evitando di annullare un processo fondato su robe anteriori ai tribunali ed alle are.
Nullità, forzature, arbitri non finirono qui. La Suprema Corte, insomma, non se l’è sentita di sostituirsi ad un Csm, che, dal 1992 ad oggi, ha assistito senza fare una piega al progressivo giugulamento del Diritto. Previti, dunque, non poteva non essere condannato, salvo far saltare in aria i coperchi: il superpotere della corporazione togata, gli intoccabili di Milano e non solo, la «giurisprudenza» conseguente, dal caso Tortora al manipulitismo, da Carnevale a Contrada, da Andreotti alla caccia all’uomo Berlusconi.

Di esemplare resta, dunque, solo la virtù di Cesare, la sua stoica e fiera sfida che ricorda la tempra di un altro meridionale vittima di toghe rosse d’altri tempi, un eroe pugliese, l'indomito Sergio Di Modugno, il quale, nel gulag, prese fieramente le distanze dagli inquisitori, cucendosi le labbra con un ago da calzolaio. Con voi non parlo. Punto. Parafrasando Shakespeare, potrei dire: «I come to praise Caesar, not to bury him».

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