Se la metà di quanto confessa è vero, Osama gli deve tanta, infinita, turpe gloria. E la mattina di quel primo marzo 2003 a Rawalpindi verrà ricordata come una tappa della sua sconfitta. Quella mattina la Cia e le unità antiterrorismo pakistane individuano il suo covo nelle viscere della caotica metropoli pakistana. Poi l’immagine di quel volto sconvolto, di quella zazzera arruffata, di quel petto villoso e di quella lurida maglietta spiegazzata fanno il giro del mondo. A vederlo si direbbe un alcolizzato di borgata, un amante indecente strappato ad un’alcova mercenaria, non il numero di tre di Al Qaida. Quattro anni dopo, il 41enne Khalid Sheikh Mohammed può rivendicare tutta la sua sinistra fama.
A sentir la sua prima deposizione ad una corte militare il signor Ksm, come lo ribattezza la sfrenata passione americana per gli acronimi, è il vero Belzebù, l’autentico regista della sequela di orrori susseguitisi nel decennio precedente la sua cattura. Definirlo, «il responsabile dalla A alla Z delle operazioni dell’11 settembre», come si presenta lui, è financo banale. Nella sua vita l’11 settembre diventa l’apoteosi in una sinfonia del terrore.
Una carriera da messia del male che scatta con il primo attentato al World Trade Center del 1993, prosegue nel 1998 con le stragi alle ambasciate americane in Africa, si affina con il colpo ad un incrociatore americano nell’ottobre 2000 e si propaga in un delirio sanguinario che unisce l’11 settembre alle stragi di turisti dell’ottobre 2002 a Bali, un fallito attentato al Papa nelle Filippine del 1995 alla decapitazione del giornalista americano Daniel Pearl.
Allo sfortunato reporter, attirato in trappola e rapito, Kms ammette - orgogliosamente - di aver mozzato la testa di persona. «Ho decapitato con la benedetta mano destra l’ebreo americano Daniel Pearl nella città di Karachi in Pakistan... chi vuole conferme può cercarsi su internet la mia foto con la testa in pugno», racconta in un inglese smozzicato ma efficace questo principe di un terrore seriale in 31 tappe.
Quei 31 massacri andati a segno, mal riusciti o solo progettati includono il tentato abbattimento sincronizzato di voli intercontinentali, l’invio dopo l’11 settembre di Richard Reid, il folle dal tacco esplosivo, a tirar giù un aereo sull’Atlantico, la strage nella hall di un hotel di Mombasa frequentato da ebrei, un complotto per far fuori l’ex presidente Jimmy Carter e poi i progettati attacchi alle Sears Tower di Chicago, all’Empire State Building, alla Borsa di New York, al Canale di Panama, al Big Ben di Londra e all’aeroporto della capitale britannica.
Prima di metter in fila la più sconcertante confessione del secolo, Kms scompare tre anni nei sepolcri senza tempo e senza legge della Cia. «Non luoghi» dove i carcerieri distillano le sue oscene verità. Di quel ricordo resta solo un esposto segretato, la protesta ufficiale per dei soprusi che qualcuno, in America, già condanna come torture.
Ma è solo il primo atto del procedimento, un’audizione per decidere se si tratti veramente di un «combattente nemico». Se sia solo un visionario mitomane deciso a impersonare il ruolo di flagello del signore, come suggerì la commissione sull’11 settembre, o un super terrorista processabile da una corte militare.
Lo sconclusionato Kms non lo nega. «Certo che sono un nemico dell’America», ammette, per poi arrovellarsi tra la compassione di maniera per le vittime al visionario autocompiacimento. «Con la guerra per forza ci sono delle vittime, ma quando dico che non sono felice per i tremila uccisi in America intendo persino che mi dispiace.... non mi diverto a uccidere bambini».
Per sé e i suoi sodali in guerra con l’America Kms rifiuta l’immagine di «sciacalli in lotta nelle tenebre». Preferisce quella di indomiti «Washington islamici». «Washington per gli inglesi era un combattente nemico, ma per voi è un patriota – spiega puntiglioso Kms - allo stesso modo i nostri considerano Osama Bin Laden un eroe, perché come Washington combatte per l’indipendenza».
Dopo quest’atroce diluvio di confessioni e mitomania resta da capire quanta sia e dove stia la verità.
I giudici con le stellette per ora non si pronunciano, sottolineano soltanto che delle sue parole si tratta.
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