Cultura e Spettacoli

L’ultima ipotesi: era il prestanome di un diplomatico

da Londra
Chi sia in realtà l’autore dell’opera di Shakespeare, chi si nasconda dietro la maschera del bardo di Stratford della cui vita poco si conosce e dei cui manoscritti non è giunta traccia, è una questione che cominciò a tormentare gli studiosi in epoca romantica avviando un intenso dibattito che ancora oggi divide gli scettici sempre alla ricerca di nuovi possibili volti e gli «stratfordiani» ortodossi, difensori a oltranza dell’uomo di Stratford. Sulla Shakespeare Authorship Question si era espresso anche Oscar Wilde, dichiarando che se ciò che conosciamo dell’uomo Shakespeare può apparire banale, in compenso ciò che non conosciamo ha un fascino e una suggestione infiniti. E nel 1922 fu istituito il «Shakespeare Authorship Trust», un ente al di sopra delle parti per dibattere la vera paternità del canone shakespeariano che fra teorie diverse e ipotesi di congiure editoriali e politiche è stato a più riprese attribuito a diversi «candidati» in apparenza plausibili finché non sorgevano incongruenze, da Christopher Marlow e un collettivo di autori a Francis Bacon e alla regina Elisabetta I, dal sesto conte di Derby a Edward de Vere, conte di Oxford.
Nell’ultimo atto della disputa che da due secoli cerca di far luce sul divario fra la grandezza dell’opera, la sua complessità ed erudizione, e l’insufficienza della preparazione dell’uomo nato a Stratford-upon-Avon nel 1564 e lì morto nel 1616, un nuovo libro rivendica il recupero definitivo della vera identità di Shakespeare, dietro il cui volto si celerebbe la penna dell’aristocratico e diplomatico Sir Henry Neville, il cui nome compare in codice nella dedica dei Sonetti e sul frontespizio del Northumberland Manuscript scoperto nel 1867 ma finora ignorato. The Truth will out: unmasking the real Shakespeare (Edizioni Longman, Londra) è il risultato di una dettagliata ricerca della studiosa Brenda James con William Rubinstein, docente di storia moderna all’università del Galles e membro della Royal Historical Society, avvalorata dal direttore artistico del Shakespeare’s Globe Theatre, Mark Rylance.
Il vero Shakespeare, dunque, sarebbe Sir Henry Neville. Discendente dei Plantageneti, nato nel 1562 e morto nel 1615, fu ambasciatore in Francia, dove avrebbe scritto parti dell’Enrico V in francese, lingua che Shakespeare non conosceva. Coinvolto nella rivolta del conte di Essex contro il governo della sovrana nel 1601, fu arrestato e imprigionato nella Torre di Londra: questo spiegherebbe, afferma Rubinstein, il drastico cambiamento nel tono delle opere che si registra nel canone proprio in quegli anni, che si fa più cupo e pessimista, le commedie lasciano posto alle tragedie.
I punti forti dell’ipotesi dei due studiosi sarebbero le prove che Neville si esercitò a lungo a falsificare la firma di William Shakespeare, che sarebbe stato un uomo di facciata per Neville, al quale discendenza e status di diplomatico vietavano di dedicarsi al teatro. E poi gli appunti trovati fra i suoi manoscritti sulla scena dell’incoronazione nell’Enrico VIII, scritti 11 anni prima della rappresentazione del lavoro, e lettere e documenti relativi al Riccardo II. Neville era inoltre un amico intimo di Southampton, al quale sono dedicati i Sonetti. Brenda James, «stratfordiana» pentita, ha dovuto arrendersi all’evidenza, dice, enfatizzando la bellezza e la perfezione della prosa di Neville, la sua conoscenza delle corti e l’uso di termini diplomatici che Shakespeare non poteva conoscere. E poi, aggiunge, la vita di Neville, i suoi viaggi, vanno di pari passo con l’evoluzione delle plays. Mark Rylance ribadisce l’importanza del dibattito e della nuova scoperta: «L’abisso fra l’uomo Shakespeare e il suo sapere è così vasto che servono tante biografie per aprire tante finestre sul mistero dell’opera».
L’obiezione, che si alza dalle schiere dell’ortodossia «stratfordiana», è che per quanto suggestive, le coincidenze possono significare tutto e niente, e il dibattito resta solo un esercizio intellettuale che lascia il tempo che trova. Per Brian Vickers, eminente studioso del Bardo, il dibattito sull’Authorship di Shakespeare è uno strano fenomeno, «una combinazione di snobismo e ignoranza. L’idea della congiura, perpetrata da editori, co-autori e da tutti coloro che parteciparono alla produzione delle plays è insostenibile, se non rifiutando l’evidenza della storia e un approccio razionale». Da New York uno studioso ha fatto sapere che negare Shakespeare di Stratford è come negare l’Olocausto. E Colin Burrow, specialista di Inglese elisabettiano a Cambridge, afferma categoricamente che «non c’è nessuna ragione di dubitare che William Shakespeare abbia scritto le opere a lui attribuite». Lo sostiene anche Peter Ackroyd, autore di una voluminosa biografia di Shakespeare uscita in questi giorni: «Non voglio nessuna prova, William Shakespeare è William Shakespeare».


Ma il dibattito continua in altra sede: una nuova polemica si è accesa intorno all’autenticità o meno del cosiddetto Grafton Portrait, un ritratto giovanile del poeta pubblicato sul frontespizio di molte edizioni del secolo scorso, che in una nuova fase della caccia al vero Shakespeare sarà incluso nella rassegna Serching for Shakespeare in allestimento alla National Portrait Gallery.

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