Rodolfo Parietti
da Milano
Il cancelliere tedesco Gerhard Schröder spera in un segnale che «calmi i mercati». Quegli stessi mercati che ieri hanno rinvigorito le quotazioni del petrolio fino a portarle a un soffio dalla barriera dei 60 dollari. Sono in pochi, tuttavia, a scommettere sull’efficacia di un intervento del vertice G8 che si apre oggi, sulla capacità dei Paesi più industrializzati di domare prezzi con la barra quasi stabilmente rivolta verso l’alto.
Ancora all’inizio della settimana, approfittando della pausa per l’Independence Day, i dealer del mercato di New York scommettevano su un barile a 80 dollari: ieri è arrivata una prima risposta che dà la misura dell’alta temperatura che continua a colpire le quotazioni. Dunque, nulla si può escludere. L’Opec, interrompendo i colloqui per stabilire se fosse necessaria un’offerta aggiuntiva di 500mila barili al giorno, si è sostanzialmente fatta da parte. Del resto, il Cartello produce oltre 30 milioni di barili al giorno, e mai negli ultimi 30 anni l’output aveva toccato un picco del genere. E poi, un conto è condannare (a parole) il caro greggio, un altro è approntare misure volte a contrastarlo. «Il petrolio alto conviene a molti, moltissimi, a partire dai Paesi produttori e soprattutto alle grandi multinazionali», sintetizza l’ex ministro iracheno dell’Energia, Fadhil Chalabi.
Fattori come la speculazione, l’aumento della domanda determinato dalla sete energetica della Cina e la scarsa capacità di raffinazione sono da tempo considerati i responsabili principali del mutamento strutturale del mercato petrolifero. Come dire: l’epoca dei 10 dollari il barile è definitivamente tramontata. E con il greggio tornato a un passo dalla barriera psicologica dei 60 dollari, sembra proprio così.
Le aziende Usa fanno intanto la conta dei danni da caro-petrolio: costerà una crescita degli utili ridotta al 6,6% contro il 17% dello scorso anno.