Con "L'Angelo del focolare", in scena al Piccolo Teatro Grassi, dall'11 al 30 novembre, Emma Dante è tornata al nucleo originario della sua drammaturgia, dopo una lunga sbornia per le favole grottesche di Basile. È ritornata, cioè, allo spazio claustrofobico, senza essere naturalistico, di una famiglia qualsiasi, apparentemente felice, vista, però, nella sua accezione sacrale, essendo, la sua identità, costruita sul rapporto, interscambiabile tra la violenza e il sacro, con la consapevolezza che senza violenza, non esista il sacro e viceversa, così come, sembra volerci dire la Dante, senza la violenza non esiste la famiglia e viceversa.
Il teatro di Emma Dante, in particolare quello della "Trilogia della famiglia", è costruito su questo paradosso che lei ha utilizzato e utilizza come forma di rivolta nei confronti di un teatro che, durante gli anni Ottanta, mostrava una certa agonia, una rivolta, apparentemente invisibile, che si identificherà con una personale invenzione linguistica, oltre che formale. Credo che la "Trilogia della famiglia", a cui apparento "L'Angelo del focolare", proprio per il suo forte impatto emotivo, generato da una lingua costruita su un dialetto impuro, sgraziato, sonoro, possa essere paragonata alla "Trilogia degli Scarrozzanti" di Testori per una sorta di mistilinguimo che le caratterizza, avendo, entrambi, optato per un teatro che vivesse in simbiosi col ventre della parola.
Con "L'Angelo del focolare", Emma Dante fa emergere il suo strano attaccamento alla famiglia, fonte di piacere, di dolore e di violenza, oltre che come archetipo, diverso, però, da quello che ha a che fare col mito e con la favola, i cui archetipi erano immersi nel mondo del fantastico. Oggi, lei ha sentito il bisogno di tornare al passato, a quell'impasto formale e linguistico che ha, come fonte primaria, sia il dialetto che elabora a contatto coi corpi degli attori, sia la violenza vissuta con un substrato immaginifico che la rende iperrealistica.
Al centro dell'azione, troviamo una coppia che ha avuto i suoi momenti felici, ma che stranamente vede il marito sopraffatto dal virus femminicida. Il marito colpisce, a morte, col ferro da stiro, la moglie (Leonarda Saffi), che cade a terra con la fronte insanguinata, con un rituale lugubre che la vede, la sera, accasciarsi morta e la mattina ritornare in vita per riprendere le sue mansioni casalinghe, ovvero preparare la colazione, non solo per il marito (Ivano Picciallo), ma anche per il figlio (Davide Leone), un po' depresso e per la suocera (Giuditta Perriera), che assiste, impotente, col crocifisso in mano, alla violenza del figlio.
La ripetitività di quella situazione intende sottolineare, in forma universale, l'abuso quotidiano dei femminicidi.
In scena, Emma Dante ha utilizzato alcuni elementi reali, come una poltrona, un letto, una lampada, un tavolo, che, però, non hanno nulla a che fare col realismo, perché la sua visionarietà lo fa svaporare, specie quando utilizza, per la moglie, un ampio vestito bianco, con delle ali, che le dà la possibilità di poter volare e liberarsi da quella violenza ordinaria che la rende schiava, magari in cerca di un Oltre, dove si potrà insegnare ad amare, a stare insieme, a rendere innocui gli atti di violenza. Il suo sacrificio di morta-viva deve essere da monito per tutti i mariti che uccidono le loro mogli e che pretendono la loro resurrezione, per continuare a imporre il proprio potere.