Tra le poche cose sagge scritte da Giorgio Bocca, ricordo d’averne letta una, chissà quando, che suonava pressappoco così: la civiltà e il progresso coincidono sul planisfero con la distribuzione geografica del latte. Infatti emigrano gli uomini, non le mucche: ormai il gorgonzola lo fanno i casari somali e nella sola provincia di Reggio Emilia si contano più di 3.000 sikh arrivati dal Punjab per tenere in ordine le nostre stalle.
Ci fu un tempo in cui l’Italia era un Paese molto civile e molto progredito: latterie a ogni cantone di strada. Fino a 45 anni fa, grosso modo. Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte di Gianni Morandi - l’inno ufficiale di un’intera generazione - è del 1962. La sera si andava dal Lattaio (chi era costui?). Noi figli di artigiani, almeno: gli altri andavano a via Veneto. Bidoncino di alluminio, imbuto di ferro. Un mestolino, due mestolini, tre, quattro, cinque, con tanti saluti all’igiene.
Poi vennero le bottiglie di vetro chiuse da un coperchietto di stagnola. Emuli del conte Dracula, più attirati dal bianco che dal rosso, bucavamo col canino quel tappo cedevole e succhiavamo un po’ di latte nel percorso bottega-casa, ma poco poco, bisognava stare attenti a non scendere sotto il livello di guardia del collo di bottiglia, altrimenti il drenaggio veniva scoperto ed erano guai.
Il prelievo occulto fu reso presto impossibile dai contenitori tetra pak, inventati in Svezia. Come Ercolino, stavano sempre in piedi, da qualunque parte si appoggiasse sul tavolo il poliedro di cartone. Un colpo di forbice a una delle quattro cuspidi, dove per solito si addensava la panna: ah, che meraviglia spremerla e portarsela alla bocca col dito.
In quell’Italia progredita e civile, che ancora venerava le Madonne del Latte e vedeva in Poppea, seconda moglie di Nerone, il simbolo della dissolutezza in quanto adusa a farsi il bagno nel sacro alimento, persino l’americano a Roma, il Nando Moriconi interpretato da Alberto Sordi, al momento di pronunciare la storica dichiarazione di guerra allo spaghetto - «macarone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, io me te magno» - ostentava sulla mensa un bel bottiglione di latte, accanto a un fiasco di vino, un controsenso scenografico di cui andrebbe chiesto conto al regista Steno, se fosse ancora vivo, e tuttavia giustificabile, perché allora si sapeva che «latte e vino fanno un bel bambino, vino e latte fanno un uomo matto».
La Milano del dopoguerra pullulava di latterie che arrotondavano servendo formaggi e uova al tegamino. I bambini delle elementari venivano portati in gita scolastica alla Centrale del latte di via Castelbarco, la prima fondata in Italia, anno 1930. Gli studenti e gli operai di Carnevale a Milano, il romanzo d’esordio di Raffaele Crovi ambientato nel 1955, passavano le serate nelle latterie di via Terraggio. Ma Crovi è morto ad agosto (constato con piacere che per il suo sito ufficiale è tuttora vivo, anche se «a breve non sono previsti appuntamenti» con l’autore) e molto prima di lui sono morte le latterie. La più antica, la Vecchia Latteria al numero 6 di via Unione, aperta nel 1865, s’è trasformata - apprendo da una guida gastronomica - in un «locale sempre affollatissimo», che «offre solo cibo vegetariano», dove «verrete apprezzati se, appena finito, lascerete il tavolo a qualcun altro». Idem la Latteria San Marco al numero 24 dell’omonima via: «atmosfera familiare, quadri di rose alle pareti; cucina tradizionale ben curata; frequentata da milanesi». Mi pare che la frequentasse anche il bellunese Dino Buzzati. Ma mica per mangiarci prosciuttino d’oca, foie gras e farro con mozzarella, pomodorini, basilico. Per un giornalista del Corriere (via Solferino è lì dietro) quel locale diventava una specie di dopolavoro. «Era una Milano nottambula che finiva alle 5 del mattino in qualche latteria appena aperta», ha scritto Nico Naldini, cugino e biografo di Pier Paolo Pasolini.
Nel frattempo i supermercati ci hanno abituato a tutti i tipi possibili di latte: ad alta qualità, ad alta digeribilità, a lunga conservazione, con metodo di pastorizzazione all’inglese (do you know?), parzialmente scremato piacere leggero, pastorizzato omogeneizzato da agricoltura biologica. Siamo arrivati all’assurdo - come mi ha spiegato il professor Giorgio Ottogalli, il microbiologo che meglio conosce la materia - per cui può fregiarsi dell’aggettivo «fresco» non solo il latte pastorizzato, cioè portato a 80 gradi per 15 secondi in modo da distruggere tutti i microrganismi termolabili, ma persino quello microfiltrato che dura 14 giorni, prodotto in Polonia e in altri Paesi dell’Est dove non esiste alcuna legislazione sulla qualità del latte, pastorizzato, trasferito in Germania per essere privato della parte grassa (la più degradabile) mediante trattamento ad altissime temperature, nuovamente pastorizzato e setacciato con microfiltri di porcellana che trattengono, insieme con le impurità, anche molti nutrienti.
Eppure l’italica civiltà nelle ultime settimane ha avuto un sussulto. All’esterno degli stessi supermercati, ma anche delle panetterie o dei negozi di frutta e verdura, stanno spuntando, a centinaia, distributori automatici di latte fresco. Ti porti la bottiglia vuota da casa, oppure con 20 centesimi puoi acquistarne una di plastica, o con 50 una di vetro, entrambe perfettamente sterili, e le riempi di latte crudo, fresco di giornata, munto ogni mattina, esente da qualsiasi trattamento, a parte la filtrazione e la refrigerazione a 4 gradi. È lo stesso latte fresco di mezzo secolo fa, altamente digeribile perché contiene tutti gli enzimi attivi. Ma non occorre bollirlo: basta tenerlo in frigorifero e consumarlo entro due giorni. Nelle successive 48 ore è ancora bevibile a condizione che sia scaldato fino a 80 gradi.
Questi distributori automatici sono in funzione 24 ore su 24, come quelli di sigarette e di preservativi. Mai più senza. Strabiliante: prima, se non avevi tempo o voglia di passare dal supermercato, dovevi pietire il latte in qualche bar. Sulle montagne che circondano casa mia prosperano aziende agricole che d’improvviso hanno riscoperto la passione per le vacche frisone. Il latte che resta invenduto lo trasformano in formaggio.
Bere latte crudo fa molto chic. Frotte di signore bene ostentano orgogliose le bottiglie di vetro nel cestello appeso al manubrio della bicicletta. Partono in comitiva per andare a far scorta. Quando le loro figlie adolescenti, per accontentare gli spasimanti, si faranno mandare dalle mamme a prendere il latte, la rivoluzione epocale potrà dirsi completata.
L’impulso ai consumi alimentari segue, in questo Paese, disegni imperscrutabili. Sono nato in una città che ha fatto fortuna, pensate, con i «dolci da ricorrenza», in una regione dove l’11 novembre si confeziona ancora il «dolce di San Martino», la sagoma di pastafrolla del vescovo di Tours a cavallo, ricoperto di confetti argentati, ricami di glassa, zuccherini, cioccolatini, e mi chiedo da sempre che cosa osti al consumo del pandoro ad aprile o a settembre, ma anche quali grazie per le anime del purgatorio possa impetrare l’abbuffata, in occasione del 2 novembre, di «favette dei morti», più che altro di conforto ai vivi.
Ieri andava di moda l’Italia della rucola. Oggi torna in auge l’Italia delle latterie.
Stefano Lorenzetto
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