Roma - Michele Tiraboschi, Silvio Berlusconi ha proposto di cambiare lo Statuto dei lavoratori. È d’accordo?
«Ha avuto coraggio. E ha capito che non è possibile affrontare temi come questi per singoli segmenti circoscritti, come è accaduto per l’articolo 18 sui licenziamenti».
Lei in che direzione lo modificherebbe lo Statuto del 1970?
«Marco Biagi dieci anni fa pensò di ricomporre la frammentazione del lavoro con lo Statuto dei lavori. È un’idea ancora attualissima. Il governo Berlusconi già lavorò in questa direzione. La legge Biagi era un tentativo di aprire la strada a un progetto più ambizioso, tanto è vero che venne istituita una apposita commissione di alto livello. Però già allora, di fronte alla possibilità di modificare lo Statuto, i sindacati dissero che non se ne parlava. Il rischio è che i tempi non siano ancora maturi. Immagino i veti e gli altolà...».
Non è normale che i sindacati si oppongano?
«La Statuto di Giugni è una bellissima legge, ma è stata fatta in altri tempi, con in testa solo il lavoro standard e la grande fabbrica fordista, che operava in un’economia chiusa ai mercati internazionali. Oggi hanno molto più peso il terziario, i servizi e forme di lavoro autonomo, i lavori a progetto».
Chi vuole modificare lo statuto cerca di rafforzare queste forme di lavoro più precario a scapito di quelle più sicure?
«No, cerca di ricomporre l’unità tra le forme di lavoro. Tra lavoratori autonomi e quelli tutelati dallo Statuto, che sono sempre meno. Tra grande e piccola impresa. Se non si farà si continuerà nella contrapposizione tra chi è tutelato e chi no; tra i fannulloni della pubblica amministrazione inamovibili e chi muore sul lavoro perché assunto in nero o perché precario. Lo Statuto finirà per tutelare un sempre più ristretto gruppo di privilegiati e gli altri resteranno fuori. I sindacati devono capire che se non si affronta questo nodo, non potrà cambiare nient’altro».
Quali sono le cose che rischiano di non cambiare?
«Non si potrà affrontare né il tema della sicurezza nel lavoro né gli ammortizzatori sociali. L’articolo 18 non è centrale, ma se non si cambieranno le norme che regolano la flessibilità in uscita, è irrealistico pensare di costruire una moderna rete di tutele non sul posto di lavoro, ma sul mercato. Sono tre legislature che sugli ammortizzatori ci sono progetti di legge delega fermi al palo».
Ha detto che lo Statuto tutela sempre meno persone. Non le sembra comprensibile che chi è tutelato non sia disposto a cambiarlo?
«Se oggi un lavoratore tipico si sente più sicuro di uno atipico sbaglia. Le aziende chiudono, ristrutturano. È anche interesse loro ridiscutere tutto».
Parliamo di proposte entrate nel dibattito elettorale: il contratto unico, con livelli di tutela che crescono con l’anzianità del lavoro...
«Ho visto che il Pd sta presentando come nuova questa idea, ma è già contenuta nello Statuto dei lavori di Biagi. Serve a superare non solo la contrapposizione tra flessibili e stabili, ma anche tra autonomi e subordinati. È giusto invece legare le tutele al reale grado di debolezza economica, all’anzianità di servizio in azienda».
Poi il salario minimo a mille euro per i lavoratori precari...
«Barzellette. Ci sono fior di studi internazionali che dicono chiaramente come il reddito minimo garantito quando è alto, come nella proposta di Veltroni, è disastroso perché crea disoccupazione giovanile. Se è basso, come nella proposta di Tito Boeri, invece, rischia di non servire. Anzi rischia di indurre i datori di lavoro ad allinearsi a questo requisito di legge. Una cosa del genere può andare bene negli Stati Uniti, dove manca una rete di protezioni sociali, non da noi».
Allora chi lo decide quanto pagare i lavoratori?
«La contrattazione tra le parti. Stabilirlo per legge è assurdo. Se si lascia allo Stato il compito di dettare modelli organizzativi alle aziende e il valore dello scambio, si ingessa l’economia e alla fine non ci guadagna nessuno.
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