Lehman, crac da 640 miliardi ma l’Europa non sarà travolta

Tre considerazioni a freddo sul più grosso fallimento mai avvenuto negli Stati Uniti.
La prima e banale nella sua durezza. In America, a differenza dell’Europa, le banche sono considerate imprese e come tali sono lasciate fallire. Certo il sistema finanziario cerca di salvare il salvabile. E se dalla torre deve scegliere, getta l’arrogante Lehman concentrata sul modello di pura banca d’affari, e salva Merrill Lynch con i suoi 2000 miliardi di raccolta da clienti privati. In meno di un anno sono stati bruciati 150mila posti di lavoro nella sola industria finanziaria. Non è la prima volta e non sarà l’ultima. Quando ci si trova in mezzo alla bufera, sempre accade di crederla la peggiore. Alla fine degli anni 80 saltarono un migliaio di banche commerciali che avevano scommesso sulle famose (grazie al film Wall Street) obbligazioni spazzatura. Nel 1994 va a gambe all’aria Bearings, dopo quattro anni collassa il fondo dei Nobel, l’Ltcm. E poi l’11 settembre con il conseguente panico sui mercati. Dopo solo un annetto il crac per le truffe Worldcom, Enron e la fine della bolla della New Economy. Il capitalismo americano è quanto di più lontano si possa immaginare dal nostro sistema di creazione del valore. Il fallimento è una circostanza della gara e non un marchio di infamia. Chi tradisce il risparmio va però in galera. E per il resto si ricomincia. Ieri il guru degli investimenti Marc Faber a Bloomberg ha detto: «Il fallimento di Lehman a livello macro-economico è molto positivo».
Seconda considerazione. Si calcola che ogni dipendente di Wall Street (finanza) genera quattro impiegati in Main Street (economia reale): i banchieri e le loro segretarie mangiano, viaggiano, comprano e consumano. Le ripercussioni dei crac a Wall Street stanno restringendo l’economia della Grande Mela: meno tasse pagate e meno lavoro per tutti. Su scala più ampia la domanda è dunque una sola: come si tradurrà tutto ciò in termini di crescita per la più importante economia del mondo? Nel secondo trimestre il Pil americano, grazie alle esportazioni, è cresciuto al favoloso (per noi europei) ritmo del tre per cento. Nei prossimi mesi vedremo quale sarà l’impatto della crisi di Lehman e delle prossime istituzioni finanziarie che con tutta probabilità faranno la sua fine. Proprio ieri sul mercato si è tremato per le sorti della più grande assicurazione del mondo, l’Aig. I segnali della «corporate America» non sono da crisi del ’29. L’industria è sana e i consumi fino ad oggi hanno tenuto. Il fallimento è un antibiotico per mantenere sano il paziente malato.
Terza ed ultima considerazione riguarda l’Europa. Ieri la Bibbia della finanza a stelle e strisce, il Wall Street journal scriveva: «La scomparsa di tre tra le più blasonate case di investimento americane, non compromette il modello bancario prevalente in Europa, che appare in buona forma. Anzi quattro banche europee (tra cui l’Unicredit) potranno approfittare dello spazio di mercato che si verrà a creare. Nel vecchio Continente il problema non riguarda la tenuta del sistema finanziario, ma piuttosto il modello di sviluppo economico.

Continuiamo a crescere con ritmi inferiori al resto del mondo. In periodo di crisi il nostro conservatorismo ci mette relativamente al riparo dalla bufera. Ma quando il ciclo riprende si va a rimorchio.
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