«Lenin tentò invano di strumentalizzarlo»

da Venezia

A nno tolstoiano, questo 2010, visto che cadono giusto cento anni dalla fuga disastrosa del grande scrittore russo dalla residenza di Jasnaja Poljana e dalla morte nella sperduta stazioncina ferroviaria di Astapovo. Era il 7 novembre 1910. Aveva 82 anni. Narratore sommo, il conte Lev Nikolajevic Tolstoj, per la grande epopea di Guerra e Pace, per l’intenso romanzo psicologico Anna Karenina, per Resurrezione e altre numerose opere e scritti; ma pure per la squassante crisi mistico-pacifista che fece di lui un anticipatore della non violenza, dell’uguaglianza praticata, della religione di coscienza. Il professor Strada per ben trent’anni ha retto la cattedra di lingua e letteratura russa all’Università di Venezia, dal ’92 al ’96 è stato direttore dell’Istituto italiano di Cultura a Mosca e, prima ancora, l’editore Einaudi lo legò a sé quale consulente.
Visto che siamo a Venezia, a un tiro di schioppo dalla Fondazione Cini, Strada mi ricorda che proprio tra quelle mura venne celebrato il cinquantenario della morte di Lev Tolstoj, nel 1960. Racconta il professore: «Sa che nomi richiamarono i tre dibattiti a S. Giorgio Maggiore? Riccardo Bacchelli e Alberto Moravia, Pierre Pascal, George Kennan e Salvador De Madariaga. E ancora: Troyat, Emmanuel, Berlin, Leonov, Lo Gatto, Silone, Piovene, Dos Passos, Caillois...». Le giornate alla Fondazione Cini furono memorabili anche per presenze e spirito polemico. Intanto la popolazione dei nipoti di Tolstoj, giunti in gran parte da Parigi e da New York; e la diletta nipote Tania andata sposa a un Albertini, figlio del primo direttore del Corriere della Sera. E poi lo scontro, tra la delegazione sovietica e molti esuli russi; tra un Vladimir Ermilov che tentò un inserimento dello scrittore nell’orbita del collettivismo marxista e sovietico e la risposta polemica degli americani Ernest Simmons e Marc Slonim, e quella davvero appassionata di Salvador De Madariaga.
Cosa fa l’Italia per celebrare il centenario dello scrittore russo?
«Nulla per ora sul piano istituzionale. Fin dallo scorso anno mi sono fatto vivo col ministro Bondi, perché fosse organizzato un convegno italo-russo sul tema. Finora silenzio. Ultimamente invece qualcosa si sta muovendo, a livello di Università Cattolica. Ho interessato i colleghi di quell’ateneo e probabilmente un incontro del tipo proposto nascerà a Milano».
Visto che abbiamo già toccato l’argomento, quale fu l’atteggiamento del regime sovietico nei confronti dell’autore di Guerra e Pace?
«Lenin arrivò a definire Tolstoj “lo specchio della rivoluzione russa”. Il regime fece di lui il campione del “realismo critico”, premessa del “realismo socialista”... Ma insomma al di là delle contingenze familiari e delle valutazioni critiche e storiche, equilibrate o settarie che siano, un elemento domina la produzione letteraria russa del “secolo d’oro” e trionfa soprattutto in Tolstoj: la sconfinatezza. Quasi che nel loro spirito si riflettesse la vastità dello spazio russo, la sua assenza di limiti e confini, la sua apertura nei passaggi più svariati della bicontinentale estensione. Non soltanto Tolstoj, Dostoevskij, Turgenev, Gorki; ma, procedendo all’indietro, persino Puškin, mostra una interiorità abissale, anticipatrice appunto dei giganti che verranno dopo»».
E chi fu il vero «specchio della rivoluzione russa»?
«In realtà fu Dostoevskij; i cui Demoni misero a nudo la specifica criminosità della rivoluzione in Russia. Non per nulla Dostoevskij, a differenza di Tolstoj, fu condannato all’ostracismo dai censori sovietici».
Tolstoj ha attraversato indenne la tempesta rivoluzionaria. Mentre i grandi scrittori del dissenso hanno pagato duramente la loro presa di distanza dal regime.
«Sì, a Tolstoj è toccata poi, dopo la misera morte ad Astapovo, una sorte tutto sommato felice. Tolstoj fu ed è ridiventato un “classico”. È onorato e studiato. Un po’ come i “classici” greci, i vari Eschilo ed Euripide per la cultura ellenica di oggi. Non c’è persona di media cultura cui il nome di Tolstoj non richiami alla mente almeno Guerra e pace e Anna Karenina, donna legata al suo dramma d’amore e al tormentoso senso di colpa.

Da un lato l’epica in versione borghese, dall’altro l’antica tragedia, trasposta nella Russia imperiale».
Una fortuna continua.
«Pensi che l’ultimo romanzo del postmodernista Viktor Pelevin s’intitola emblematicamente “T”, visione onirica di un redivivo e clonato Tolstoj».

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