Leonard Cohen, ecco l’ultimo monologo del «pigro bastardo»

A 78 anni Leonard Cohen pubblica i suoi brani più spirituali. «Non ho futuro, mi rimane poco tempo»

Leonard Cohen, ecco l’ultimo monologo del «pigro bastardo»

No per carità, mica il blues con le chitarre in riva al Mississippi. Macché: blues dello spirito. Le chiama Old ideas queste canzoni, vecchie idee, ma è un mattacchione perché sono nuove, nuovissime e non potrebbe essere diversamente. Un disco, perbacco, che bisogna ascoltare respirandolo. Piano piano. La sua voce, poi, un baritono con il colore rauco delle papier maïs, le Gitanes che i fanti francesi si accendevano sotto le bombe della Wehrmatch. Respirate piano. Leonard Cohen, lui che è uno straccivendolo del cuore per dirla con Yeats, ha impiegato quasi 80 anni (78 per l’esattezza, li compirà a settembre) per salire le scale della sua anima e scendere dunque al nostro livello terrestre, mescolando depressione con razionalità, notte con raggi di sole, angosce senza fiato con sospiri pieni di rimorsi. Erano otto anni che non pubblicava canzoni nuove e, fosse per lui, forse avrebbe addirittura lasciato nel cassetto la semenza che ha fatto germogliare questi nuovi brani. Li ha incisi perché, ha spiegato a Londra, i due anni e mezzo spesi a cantare in giro per il mondo non gli hanno soltanto fatto riempire il buco finanziario lasciato dal suo manager delinquente, ma sono stati detonatori di neonato entusiasmo. Perciò è un po’ blues, ora. Il blues è terrestre, sanguinoso e sanguinario talvolta, e perde l’orientamento tra desiderio e rimpianto, amore e speranza, passione e carne. E in brani come Darkness, con quel giro di chitarra cupo e vagabondo, mentre dice che «Non ho futuro, so che mi rimangono pochi giorni» Cohen, il pigro bastardo che da sei decenni appare e scompare pur rimanendo in mezzo a noi, ci aggiunge la sua famosa e deleteria misantropia, tutta condensata in pochi accenni, qui e là, perché come ha scritto nel suo primo romanzo del 1963, Il gioco preferito, «vorrei dire tutto ciò che c’è da dire in una sola parola. Odio quanto possa succedere tra l’inizio e la fine di una frase». Il blues non ha bisogno di parole, è lo stato d’animo di chi è fermo al crocevia e prende la strada obbligata, non quella più facile. O vantaggiosa. O vile. «Ho pensato che il passato mi avrebbe ucciso, ma lo ha fatto l’oscurità». Prostituendosi con entrambi, dormendo con la propria storia di vizi e depressione e meditazione, alla fine l’icona Leonard Cohen ha trovato il disco definitivo, quello che artisticamente può diventare la sua vetrina, o chiamatelo manifesto o usate qualsiasi definizione possa contenere l’estro di un canadese che dalla viscerale Chelsea hotel scritta per l’amica Janis Joplin è salito sul Karakorum della purezza per diventare infine buddista e poi ora semplicemente umano. Addolorato. Ma persino consapevole quando chiede «Show me the place», mostrami il luogo, con una voce che arriva nell’angolino più buio dell’angoscia. E il violino, solo lui, accenderà un po’ di luce. Forse chi lo segue dalla Suzanne del 1966 reagirà diversamente da chi lo ha scoperto grazie alla Hallelujah rifatta da Jeff Buckley neanche vent’anni fa: e nelle chitarre che accompagnano questo soliloquio altissimo risentirà l’eco di Songs of Leonard Cohen o Songs from a room, i primi dischi che furono qualche volta cassati perché «troppo negativi», troppo lontani dall’enfasi utopica che si respirava allora. L’ha attraversata, quell’enfasi, sgocciolando a fil di marxismo, immaginandosi soldato della socializzazione con Fidel Castro fino ad arrivare al suo peggior disco, il Various positions annacquato da folk rock ma vassoio perfetto della canzone più famosa, Hallelujah appunto, così famosa che adesso gli tocca purgarne il successo. «Sono stanco di scegliermi i desideri» canta in Crazy to love you sopra un’acustica lieve, quasi impersonale. È stanco perché li ha scelti tutti, o anzi subìti, e ormai ripetersi che gli importa: piuttosto è meglio riparare i guasti (Come healing) mentre si sbuffa finalmente la boccata di guai lunga una vita.

Perciò Old ideas è l’ultima sigaretta del pacchetto, ossia il crocevia obbligato: dopo, puoi continuare, facendo finta di nulla. Oppure dolorosamente fare i conti e smettere. E respirare aria nuova. Come lui, ora, alleluja.

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