C’è sempre un Leonardo che inventa. Questo comincia oggi: costruisce se stesso e il futuro del calcio. Il campionato è suo prima che degli altri: Mourinho, Ferrara, Prandelli, Spalletti, Donadoni. Loro hanno una storia, lui no. Si siede sulla panchina del Milan per creare qualcosa. È il destino di un nome e di un ruolo: comincia da Siena, con quel pezzo di carta chiamato patentino che gli dà il diritto di allenare, ma non gli garantisce di saperlo fare. È questo il bello. Certo c’è Mou, le sue polemiche, la sua incredibile bravura, il suo essere speciale. Però se si scava nel cuore del calcio che ricomincia oggi, forse si pesca la storia di Leonardo, che sa sei lingue come José, che ha vissuto come José, ma che in più ha giocato.
La sua avventura è il paradigma del campionato: vediamo se c’è qualcosa di buono, se emerge una faccia nuova, un’idea vincente. Vediamo se un giovane ce la fa nel pallone. Si riparte perché è finita un’epoca. Leo ha la faccia di chi non ha ancora capito che sulle spalle ha la responsabilità di se stesso, della squadra e però anche del movimento: abbiamo perso Kakà, ha lasciato Maldini, se ne è scappato Ibrahimovic. Il calcio italiano s’è svuotato di talento e di anima. Un’estate così è da pazzi, o quasi. Ti lascia col punto interrogativo: come sarà questo campionato? C’è la garanzia Mourinho e poi l’incognita, la variabile ballerina con le gambe storte e un fare da signore di un’altra era. Leo parla piano, con una voce sottile: non inventa neologismi, non costruisce metafore, non ingaggia duelli. Gliene è bastato uno, tanti anni fa: era il mondiale americano, piantò un gomito sulla faccia di un giocatore degli Stati Uniti. Quella botta gli costò il resto delle partite, fino all’ultima con l’Italia, fino alla Coppa del Mondo. Campione praticamente senza giocare. Non l’ha mai più fatto, non lo farà. Leonardo incarna l’anti-Mourinho più di chiunque altro, più di Ancelotti che nella trappola della geniale retorica di José è caduto tante volte. Qui gira l’invenzione di Leo: trovare l’idea per sostituire Carletto che è stato speciale e vincente a modo suo. Carlo è l’insospettabile, quello che ha cambiato il modo di essere: in campo picchiava, fuori accarezza. Le polemiche lo disturbano, le provocazioni non lo sfiorano. Quante volte hanno provato a metterlo in difficoltà? Dicevano che la formazione del Milan la facesse Berlusconi. E Carlo: «Ah sì? A me non risulta». Una, due, dieci volte. Fino a quella del presunto sfogo berlusconiano. «Il presidente dice che non capisco niente? Devono aver capito male, a me ha detto il contrario». In otto anni a Milano ha pensato che se uno voleva fare l'allenatore del Milan non poteva essere diverso: lui è stato perfetto, attore di se stesso, interprete di un ruolo e di una maniera di essere.
Leonardo non è Carlo. È il contrario: è uno di mondo, mentre Carletto è provinciale; è globale, mentre Carletto è locale; è raffinato, mentre Carletto è ruspante. Diversa la persona, diversi anche i tempi. Perché nell’era Berlusconi ci sono stati tanti Milan: quello della novità, pronto a comprare i giocatori più forti su piazza per vincere tutto; quello della solidità che ha cementato lo stile sportivo e aziendale; quello della nuova-era che ha portato al club Sheva e i suoi fratelli; quello della restaurazione che è seguita alla novità di inizio Duemila; quello dell’ultimo colpo di coda, fatto di giocatori avanti con l’età ma capaci di vincere ancora in Europa; quello della stanchezza, cioè l’ultimo prima di questa stagione. Leonardo deve creare, appunto: si trova in mano il Milan della parsimonia, che non ha nessuna voglia di spendere come fa il Real Madrid, ma vuole restare tra i più forti facendo solo scelte migliori. La sfida è questa, più che qualunque altra del campionato italiano. Ferrara alla Juventus ha avuto più di quanto abbia potuto avere Leo. Mourinho non aveva bisogno di molto e comunque ha ottenuto e otterrà. All’inventore di favole hanno dato un centravanti, un portiere, un difensore americano. Gli hanno detto che questa è la squadra più titolata del mondo, ma che il nuovo corso è vincere senza spendere troppo, perché qualcuno l’ha fatto e quindi si può. Ha detto sì, Leonardo. Ci crede perché è giovane e perché sa che le idee possono competere con la forza fisica. È la scommessa del campionato che comincia, una faccia conosciuta ma comunque nuova, un campione che si mette in discussione, un manager che si infila di nuovo la tuta. Se questo sarà un calcio con un futuro un giorno lo potrà dire anche la storia di Leo, che è brasiliano, ma che tutti in fondo consideriamo italiano. Ci sono stranieri che giocheranno nella Nazionale senza neanche saper mettere in fila soggetto, predicato e complemento. Leonardo sa usare il congiuntivo. Non deve per forza piacere a tutti, ma ha la capacità di non stare antipatico a nessuno: non è stato ancora trovato uno slogan contro di lui, non ci sono stati cori, striscioni, ironie. L’educazione gli ha garantito il rispetto. L’unico nemico vero che ha è quel giocatore americano che si mise le mani in faccia e vide il sangue dopo la gomitata. Quanto s’è pentito, Leo? Tanto. Ha espiato giocando, danzando sul pallone, parlando alla fine delle partite. Poi portando Kakà in Italia: non perché Ricardo fosse un angelo, ma perché ci ha consegnato un campione unico, straordinariamente eccezionale. Non lo avremo più. Ci rimane Leonardo, però. Quindi la mente. Uno che sa, ma ancora non ha dimostrato di sapere.
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