Leonardo Sciascia la ragione come bussola

Leonardo Sciascia morì il 20 novembre 1989. Aveva 68 anni. Lo conobbi negli anni ’60 in un viaggio in Sicilia da inviato del Corriere. Me lo presentò Aldo Scimè, intellettuale di grande sensibilità e cultura, suo conterraneo e amico dall’adolescenza. Si creò tra noi un rapporto di grande cordialità, stima e amicizia. A lui debbo l’idea del mio libro I papi invisibili (Rusconi, 1972), del quale mi suggerì anche il titolo.
Quel che mi colpì di Leonardo fu la sua cultura illuministica e quel suo razionale giacobinismo ch’era, si può dire, l’humus della sua visione del mondo. Giacobinismo razionale, sì, che non aveva niente di estremismo e massimalismo. La ragione fu sempre la sua guida intellettuale, come si nota del resto in tutta la sua scrittura. Non a caso la sua narrazione ha sempre un taglio di ricerca, quasi di inchiesta. La ragione fu la bussola che egli mai abbandonò. Fino a fargli assumere fiere posizioni anticonformiste all’interno della sinistra, che gli costarono accuse ingiuste e ingenerose persino da vecchi amici, che mai però lo indussero a ripensamenti di comodo. La sua caratura intellettuale e morale era di uno spessore poco comune a tanti chierici della letteratura.
Rimane un capitolo esemplare la polemica che ebbe inizio con il suo articolo sul Corriere del 10 gennaio ’87 intitolato «I professionisti dell’antimafia». Se la prese con il «Comitato antimafia» che definì «una frangia fanatica e stupida». Ne venne una reazione irosa e cattiva, dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando e non solo. Taluni riconobbero poi d’avere sbagliato. Fu addirittura accusato di collusione con la mafia, lui che con i suoi scritti, più di chiunque altro, ne aveva segnalato efficacemente la dimensione criminale e la penetrazione sociale.
Di quella sua polemica va ricordato un intervento a sua difesa di Rossana Rossanda sul manifesto, dal titolo «Un triste processo». Uno dei pochi, certamente l’unico a sinistra. Erano anni di irrazionalità irresponsabile. Di questo clima forsennato mi capitò spesso di parlare con lui. Alcuni nostri incontri avvenivano a Milano, nel piccolo albergo di via Santo Spirito dove egli scendeva, facendovi in genere tappa nell’andata o nel ritorno da Parigi. La ville lumière, dove si recava spesso, era quasi una seconda patria per lui, vi trovava evidentemente quella civiltà di sentimenti e rapporti umani che gli era congeniale.
Furono molti i nostri incontri a Palermo, a Milano, qualcuno anche a Roma. Mi rincresce di non avere avuto l’accortezza di tenere un diario di quelle nostre conversazioni. Ricordo una colazione con lui e Montanelli dalla «Bice», che, dopo un lungo scambio di idee, finì con una visita di Leonardo al Giornale. Indro commentò con me: «Non è facile tirargli fuori le parole. Mi chiedo come faccia tu a tenere con lui tante lunghe conversazioni. È davvero un enigma silenzioso».
Ci sono due sue espressioni che meritano d’essere citate: «Io credo nei siciliani che parlano poco, che non si agitano, che si rodono dentro: i poveri che si salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli»; «C’è stato un progressivo superamento dei miei orizzonti, e poco alla volta non mi sono più sentito siciliano, o meglio non più solamente siciliano. Sono piuttosto uno scrittore italiano che conosce bene la realtà della Sicilia».



«Sciascia, diciotto anni dopo» è stato il tema di un incontro tenutosi giovedì scorso a Racalmuto (Agrigento), alla «Fondazione Leonardo Sciascia». Vi hanno partecipato giornalisti e politici che, come Egidio Sterpa, hanno personalmente conosciuto lo scrittore siciliano.

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