La voce dei superstiti che il Giappone (come l’Occidente) non volle ascoltare

A ottant’anni da Hiroshima un libro raccoglie gli scrittori che videro l’orrore

HIroshima e Nagasaki, da Wikipedia
HIroshima e Nagasaki, da Wikipedia

Due lampi accecanti. Una nazione guerriera sbriciolata, annichilita, perché non c’è acciaio di katana che possa resistere quando due soli scendono in terra e vaporizzano soldati, donne, vecchi, bambini o quando vagando tra macerie radioattive quello che si vede su una parete è l’ombra di un cane stampata dalle radiazioni che lo hanno annichilito. Nell’agosto del 1945 la storia umana cambia per sempre. L’eventualità che l’uomo possa autodistruggersi diventa un fatto incontrovertibile. L’arma della fine del mondo esiste e la cosa più incredibile è che in moltissimi, sull’onda dei giornali, ne accolsero l’arrivo con gioia. Come ebbe a ricordare anni dopo Guido Ceronetti: «Quel che non dimenticherò è l’allegria generale, creata dai giornali e rimbalzata su tutte le facce, dopo la bomba di Hiroshima: “Questo fa finire la guerra: tutte le guerre, per sempre” – “Siamo entrati in un’epoca di prodigi mai visti”. Era sbarcato Cortés e gli Indiani poveretti accoglievano come un Dio il loro massacratore ». A capire davvero furono forse solo i giapponesi, a partire dal generale Seizo Arisue, che sorvolò le città bombardate: «Sotto di me si stendeva un deserto senza vita, senza più nulla di terrestre, sul quale s’alzavano solo le sagome nere e spettrali degli alberi». Ma la compressione - che comportò la fine di ogni illusione sull’imbattibilità del Giappone, sulla divinità dell’imperatore e su un “destino manifesto” in versione samurai - rapidamente nel dopoguerra lasciò il posto ad una sorta di rimozione collettiva. Le moltissime vittime dell’attacco, in giapponese chiamate Hibakusha, vennero a lungo ghettizzate, tanto per dire: solo nel 1957 si arrivò a una legge che garantisse loro cure mediche gratuite per l’effetto dei bombardamenti e delle conseguenti piogge radioattive. Questo abbandono nasceva da un fatto molto giapponese: la vergogna della sconfitta e lo stigma della deformità fisica. A cui si sommava un fatto molto più comunemente umano: la necessità di andare avanti di una nazione anche a costo di seppellire il proprio passato radioattivo, un passato stampato sulla pelle di 650mila persone.

Pochi, una manciata di scrittori e intellettuali coraggiosi, hanno avuto la forza di opporsi all’onda della rimozione per avere la forza di dire quello

che Kenzaburo Oe ha sintetizzato così: «Coloro che non si suicidarono nonostante avessero tutte le ragioni per farlo; che hanno salvato la dignità umana in mezzo alle più orrende condizioni mai sofferte dall’umanità».

Alcune delle più toccanti di queste testimonianze sono ora disponibili in Hiroshima, il giorno zero dell’essere umano (Marsilio, pagg. 128, euro 14) appena pubblicato con la curatela di Luisa Bienati, orientalista che insegna Letteratura giapponese moderna e contemporanea all’università di Venezia.

Il testo forse più d’impatto tra quelli presentati è quello di Hara Tamiki (1905-1951), scrittore e poeta che sopravvisse all’attacco su Hiroshima per poi suicidarsi, buttandosi sotto un treno, a Tokyo, pochi anni dopo. Si intitola Il fiore dell’estate ed è la descrizione degli effetti dell’attacco che lo scrittore visse di persona: si trovava a Motomachi, a circa un chilometro e mezzo dall’ipocentro. Un girone infernale è descritto senza una sbavatura emotiva. Scatta a parole fotogrammi dell’orrore: «Fu allora che, lungo lo stretto sentiero di pietra che costeggiava l’acqua, per la prima volta vidi una moltitudine di persone in condizioni indescrivibili. Il sole, ormai inclinato, conferiva al paesaggio un pallore irreale. Sia in alto che in basso lungo la riva vi erano corpi umani che proiettavano ombre nell’acqua. Uomini? Donne? Era quasi impossibile distinguerli: i volti gonfi erano totalmente deformati, gli occhi ridotti a fessure, le labbra completamente ulcerate».

Una realtà di cui a lungo i giapponesi e le forze di occupazione hanno preferito non parlare.

Diverso ma di notevole impatto anche il racconto La lucciola di Ota Yoko, che viene presentato per la prima volta in traduzione italiana. Ota durante la Seconda guerra mondiale era una scrittrice molto in voga in Giappone e nei suoi romanzi aveva glorificato lo sforzo bellico e la politica imperiale portata avanti da Tokyo. La bomba cambiò tutto. Divenne una dei nomi più importanti di quella che è nota come Genbaku bungaku, la letteratura atomica, la letteratura della bomba. In La lucciola c’è il dopo, la vita di chi si è portato addosso per sempre i segni dell’esplosione, di chi ha assistito al lento disfacimento del proprio corpo. «Vidi la sua schiena e il suo addome. Ma non piansi. La carne dell’addome era stata innestata sulla schiena. Le cicatrici di entrambi i lati erano ormai cheloidi. Sull’addome non c’era più un solo punto integro. Non era rimasto quasi più nulla su cui intervenire. Dentro di me, desiderai che finisse subito di vestirsi». Ma tutto il racconto è pervaso più da una malinconia profonda che dal senso dell’orrore, c’è nelle pagine un sentimento di innocenza irreparabilmente perduta: «Mi accovacciai. Lucciole magre, pallide, brillavano tra l’erba. Ne presi una: “Soldato...”, dissi. “Tu sei il fantasma di un soldato, vero? Non riesci a morire del tutto?”, mormorai... Presi una lucciola e, come per farla volare in alto, alzai la mano e la lanciai. La lucciola cadde leggera. Anche in mezzo all’erba le lucciole brillavano».

Una raccolta di grande bellezza e di grande dolore.

Necessaria forse in un momento in cui il mondo con la minaccia atomica sembra aver ricominciato a giocare malamente. Nel parco della pace di Hiroshima è scritto: «Riposate in pace. Perché l’errore non si ripeterà».

Speriamo di non aver mentito ai morti. Speriamolo per i vivi.

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