Lettere, appunti, fotografie Un operaio della scrittura di nome Ernest Hemingway

In mostra a New York il materiale conservato in una vita alla ricerca della perfezione (letteraria) e segnata da due conflitti mondiali. Come rivela a Fitzgerald: "La guerra è il soggetto migliore"

Ernest Hemingway negli anni Trenta
Ernest Hemingway negli anni Trenta

da New York

E rnest Hemingway non ricordava il momento in cui decise di diventare uno scrittore, «volevo farlo da sempre», ha detto quando il mondo letterario già faceva a gomitate per lanciare petali di rosa lungo il suo cammino. Giocherellava un po' con l'idea del genio innato, dell'artista predestinato che produce capolavori senza sforzo, quando sapeva che la sua stella brillava grazie al lavoro metodico, alla disciplina che riuscì a padroneggiare nel tempo, quando venne in qualche misura a patti con le passioni, e all'affinamento progressivo della tecnica. Aveva imparato a scrivere nel luogo che oggi appare il più improbabile, la redazione di un giornale. Il manuale del The Kansas City Star imponeva poche e cristalline regole: frasi brevi, niente aggettivi, concetti chiari. È partita da lì la sua lunga e forse incompiuta ricerca delle right words , versione americana del mot juste che ossessionava Flaubert, con le eterne riscritture, i romanzi tagliati di oltre metà della lunghezza dopo la prima stesura, il finale di Addio alle armi buttato giù e poi rifatto per 47 volte. Una versione finisce così: «Questo è tutto quello c'è da dire in questa storia. Catherine è morta, tu morirai e io morirò, e questo è tutto quello che posso prometterti».

La mostra Ernest Hemingway: Between Two Wars , alla Morgan Library & Museum di New York fino al 31 gennaio 2016 è innanzitutto una testimonianza dell'affezione - profonda, tormentata: ma sono già troppi aggettivi - che lo scrittore aveva per la scrittura. Prima dell'Hemingway uomo di mondo, del militare, del pescatore di Marlin, del bon vivant, del bevitore di daiquiri, del frequentatore di salotti parigini, dell'avventuriero con quattro mogli e del cacciatore nelle piane dell'Africa, nelle teche e nei manifesti su sfondi di colori caraibici si incontra l'operaio della parola, il tessitore di racconti che colleziona con la meticolosa furia del cronista qualunque scartoffia, dai biglietti della corrida di Pamplona ai telegrammi mandati attraverso mezzo mondo. Nessuno prima del curatore della sezione letteraria della Morgan, Declan Kiely, aveva mai pensato di rendere disponibili al grande pubblico questi materiali, per la maggior parte donati alla biblioteca di John Fitzgerald Kennedy, un ringraziamento della vedova di Hemingway, Mary, al presidente americano che l'aveva aiutata a recuperare l'eredità lasciata dallo scrittore a Cuba.

Between Two Wars è anche lo spaccato di un uomo profondamente segnato dall'epoca tragica in cui vive, quella delle guerre mondiali e della «generazione perduta», espressione che Gertrude Stein aveva sentito pronunciare per la prima volta da un meccanico francese e che lui si era appuntato in uno degli innumerevoli taccuini. L'immagine di questo giovane di straordinaria bellezza con le stampelle all'ospedale di Milano, dov'era finito poco dopo essere stato mandato al fronte, è uno dei rari frammenti di felicità in cui ci si imbatte nel percorso della mostra. Già il primo pannello mette in guardia il visitatore, citando la frase di una lettera al suo amico e mentore Francis Scott Fitzgerald: «La ragione per cui sei così irritato di non aver fatto la guerra è perché la guerra è il soggetto migliore di tutti. Raggruppa il massimo dei materiali e velocizza l'azione e porta in superficie tutte le cose che normalmente bisogna aspettare una vita per vedere».

La guerra e la sua inseparabile compagna, la morte, sono temi che innervano non solo l'opera ma anche la vita dello scrittore, quello di Fiesta , che si apre con i versi ombrosi dell' Ecclesiaste : «Vanità delle vanità, tutto è vanità», l'artista che cercava la perfezione poetica anche nella rappresentazione della bruttezza, del legno storto dell'umanità, «perché se tutto è bello non puoi crederci», scriveva a suo padre. Quando, di fronte all'addensarsi delle nubi sull'Europa con l'ascesa del nazismo, preconizza un'altra, devastante guerra, invoca una posizione isolazionista degli Stati Uniti («Non dobbiamo bere il brodo infernale che sta bollendo in Europa») e nota anche che il conflitto è parte della condizione umana: «Nessun catalogo degli orrori ha mai allontanato gli uomini dalla guerra».

L'allestimento sobrio, perfino austero, che la Morgan Library ha scelto per raccontare lo scrittore americano attraverso bozze, lettere, appunti e immagini è una cornice adeguata per un uomo che per tutta la vita ha guardato con la coda dell'occhio la morte. Quando il padre è morto suicida, con alcuni amici ha condiviso un pensiero a voce alta: «Forse è così che finirò anche io».

È una delle profezie di Hemingway, morto suicida a 61 anni, così come tre dei suoi fratelli.

Le sue carte esposte in forma di mostra ci conducono passo dopo passo, appunto dopo appunto, nel dramma di chi ha danzato gioioso sul crinale della vita, cercando una riconciliazione, forse anche una salvezza, a mezzo metro da un baratro senza aggettivi.

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