Lezione Cagliari: non si vince senza rischiare

Lezione Cagliari: non si vince  senza rischiare

Questa è una storia ambientata nel Calcio, ma non è una storia di calcio. Lo scudetto del Cagliari del 1970 fu - dal punto di vista tecnico - la realizzazione di una impresa impossibile. Tuttavia accadde perché quella squadra, selezionata con criteri di modernità e analisi psicologica, metteva insieme lo spirito di un tempo. C'era il prodigio di Gigi Riva, ovvio. Ma Riva non era solo.

«Quei ragazzi erano tutti figli della guerra, e molto altro. Avevano le gambe grosse e il cervello fino, ed erano la fotografia di un'Italia che (purtroppo) non esiste più», scrive bene, molto bene Luca Telese nel suo ultimo libro Cuori Rossublù (Solferino).

Intorno a questa squadra - e forse questo è l'aspetto più interessante - c'è una Italia che cresce e che corre. La società autostrade annuncia con orgoglio e paginate di pubblicità sui giornali: «Abbiamo realizzato 952 chilometri di autostrade». I consumi sono trainati dalla coda del boom, persino i televisori sono venduti come una promessa di futuro: «Acquista un Philco! Appena arriverà la televisione a colori te lo riprenderemo indietro». Il Cagliari fu il riflesso diretto di questa espansione, perché a finanziare la società, nel tempo di crisi e di difficoltà a far quadrare i bilanci, intervennero due società, Saras e Sir, che avevano costruito a tempo di record impianti, raffinerie e poli petrolchimici da un capo all'altro dell'isola, facendo nascere armate di «metalmezzadri»: la mattina operai in fabbrica, la sera pastori e agricoltori a casa loro.

E poi quel Cagliari fu il primo - grazie al suo mister, Manlio Scopigno - a portare nel calcio delle caserme, dei ritiri coatti, del paternalismo autoritario, l'idea della libertà personale e della responsabilità. Memorabile l'aneddoto in cui sorprende i suoi giocatori mentre si notte si dedicano al poker, in una stanza piena di nicotina. Si siede fra di loro e dice: «Disturbo se fumo?».

Telese racconta con venature di nostalgia dichiarate lo spirito del fare che attraversava tutto e tutti. Ultima perla: il giornalista de La7 racconta il suo stupore nel trovare sulle pagine dei quotidiani di allora il racconto di un virus influenzale arrivato dalla Cina (vi ricorda qualcosa?). Si chiamava «Hong Kong 1968», venne ribattezzato «Virus Mao», e al Cagliari - colpiti sei giocatori - fece perdere la partita con il Palermo.

Si ammalarono quindici milioni di italiani, secondo le stime dell'epoca, e ne morirono tra 5mila e 20mila (anche all'epoca i numeri ballavano un po'). Ma non si fermò nessun lavoratore, nemmeno un solo minuto.

Nei tempi dello smidollato #restiamoacasa e del buonistico #andratuttobene, un antidoto all'idea consolatoria è falsa che si possa vincere senza rischiare.

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