Lezione dagli Usa: si festeggi il lavoro ma senza politica

Guido Mattioni

Mai quanto in un’Italia a governo unionista - quale sarà a giorni - la notizia della marcia di milioni di immigrati chicanos nelle maggiori città americane avrebbe potuto eccitare gli animi e i pruriti della categoria giornalistica nazionale, cartacea o catodica che sia. Notizia che comunque c’è, bella grossa, e che rappresenterà sicuramente una delle issue bollenti, uno dei temi caldi delle prossime elezioni di medio termine negli Stati Uniti. E anche oltre, dato che l’immane problema di questi milioni di disperati sans papier d’Oltre Oceano, braccia a basso costo per buona parte di quell’economia, condizionerà il prossimo futuro della più grande potenza mondiale. Che però lo affronterà - e lo risolverà, ne siamo certi - come ha sempre fatto in altre analoghe occasioni: con soluzioni semplici, pragmatiche e soprattutto dopo un dibattito privo di incrostazioni ideologiche.
Mentre questa occasione, in Italia, ha fatto ancora una volta «l’uomo ladro». O meglio, «il giornalista ignorante». Perché di fronte alla ghiotta opportunità di dileggiare l’America, penne e microfoni hanno clamorosamente toppato. Con il risultato che le pulsioni contro l’odiato yankee, finalmente libere di esprimersi, sono venute a galla, fino alla carta e all’etere, traducendosi in una comune falsità. Più o meno questa, inesatta quanto compiaciuta: «In America non esiste la festa del lavoro». Lasciando intendere che laggiù, oltre l’Atlantico, si stende una landa ingiusta e crudele dove i lavoratori non possono festeggiare una giornata a loro dedicata.
Errore! Anche l’America ha il suo Labor Day, festività nazionale e molto sentita, che cade però ogni primo lunedì di settembre, anziché il primo maggio come da noi. La ragione di ciò si potrebbe trovare appunto, come si accennava prima, nell’assenza di ideologie nel bagaglio culturale degli americani. E in parte è vero, mentre invece il 1° maggio europeo è nato come festa di partito, come celebrazione della primavera del proletariato illuminata dal sol dell’avvenire, come rappresentazione visiva della concezione marxiana di una società divisa in classi contrapposte, in guerra tra loro.
Gli Stati Uniti, dove le lotte sindacali in passato sono state durissime, anche sanguinose, ma sempre giocate sul terreno dei risultati pratici - più soldi e più diritti - e mai su quello di un confronto tra «pezzi» della società, hanno invece avuto l’idea bizzarra (ad occhi marxiani, ovviamente) di nascere come nazione senza classi. Idea sintetizzata magistralmente nell’incipit della loro carta costituzionale (del 1787, la più antica tra tutte quelle democratiche, è giusto ricordarlo): «We, the People...». Cioè «Noi, il popolo». Nel senso di tutti: operai e liberi professionisti, impiegati e industriali, perfino sacerdoti e militari. Tutti quelli che lavorano, insomma. E anche la scelta della data, il primo lunedì di settembre, ha una sua precisa ragion d’essere. In quanto è il giorno che sancisce sui calendari la fine della stagione delle vacanze (che inizia il 30 maggio con il Memorial Day) e la piena ripresa sia delle attività lavorative, sia di quelle scolastiche.
Rivoluzionario - ma per davvero, non come sotto le alluvioni di retorica che caratterizzano il 1° maggio europeo - è infine anche il modo di festeggiare. Senza bandiere né slogan che dividono. Bensì con qualcosa che unisce: con party, feste e grigliate nei parchi pubblici o nei giardini delle case private, per celebrare quelle comodità e quegli stessi oggetti del benessere - dal barbecue al frigidaire colmo di bistecche - che sono in fondo la traduzione sì prosaica, ma concreta e per questo sincera, del conquistato benessere diffuso (checchè ne dica Bertinotti) della società americana.

Al punto da convincere gli stessi dirigenti dei sindacati, nel 1994, a rinunciare per sempre a quella che era stata fino ad allora la tradizionale parata newyorkese sulla Quinta Strada. Optando per un liberatorio tuffo in mare o in piscina.

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