Anche oggi che ha 83 anni, Vernon L. Smith porta quei capelli lunghi che già esibiva prima di essere insignito del premio Nobel per l’economia nel 2002. Il massimo riconoscimento cui possa ambire uno scienziato sociale non ha alterato il suo look e ancor meno ha modificato i suoi convincimenti liberali, che all’indomani della crisi finanziaria dei subprime l’hanno portato a mettere sotto accusa non già il mercato, ma quel complesso sistema di regolazione pubblica (banca centrale, politiche sociali, pianificazione urbanistica) che ne ha alterato il funzionamento.
In questi giorni Smith è in Italia per il Festival dell’economia di Trento, dove verrà presentato anche il suo ultimo volume: La razionalità nell’economia. Fra teoria e analisi sperimentale (IBL Libri, euro 25). Noto soprattutto per i suoi studi pionieristici sull’economia sperimentale, che avviò fin dai primi anni Sessanta, Smith ha focalizzato la propria ricerca su alcuni nuclei teorici di notevole interesse. Basandosi su simulazioni controllate e su micro-mercati artificiali, grazie ai quali è possibile testare il comportamento umano e l’efficacia di differenti sistemi normativi, Smith è giunto ad affermare che la rete dei rapporti economici di mercato è in grado di produrre risultati sostanzialmente non dissimili da quelli anticipati dalla teoria liberale classica. Se fin dai tempi di Turgot e Adam Smith questa linea di pensiero aveva affermato che è sufficiente affrancare l’economia da ogni dominio «sovrano» per avere risultati tendenzialmente ottimali, gli esperimenti compiuti in laboratorio suffragano in larga misura quelle tesi.
In altre parole, esiste una razionalità del laissez-faire, dato che entro un mercato privo di intralci regolamentari viene prodotto solo quanto viene richiesto e al prezzo minore possibile, e tutto ciò a dispetto della limitata informazione dei singoli soggetti: produttori e consumatori. La spiegazione starebbe soprattutto nel fatto che, grazie all’interazione degli scambi e al sistema dei prezzi, l’insieme degli attori avrebbe a disposizione più di uno strumento per limitare le conseguenze negative derivanti da una conoscenza inadeguata. È come se il mercato nel suo insieme, in qualche modo, ne sapesse più dei suoi singoli componenti.
Lo studioso americano è arrivato a questi risultati teorici grazie a ipotesi ed esperimenti, e a seguito di una serie di congetture e di un numero altissimo di prove empiriche controllate nei più diversi settori: dall’economia finanziaria alle aste per assegnare licenze.
Come il libro mostra assai bene, nel corso degli anni non solo ha poi testato la bontà delle proprie tesi su avvenimenti significativi (dalla liberalizzazione delle linee aeree alla crisi energetica californiana), ma si è anche reso conto che una parte rilevante delle sue ipotesi trovava un fondamento quanto mai solido nelle riflessioni teoriche di Friedrich A. von Hayek. In particolare, Smith recupera dallo studioso austriaco la distinzione cruciale fra ordini costruiti e ordini spontanei: fra i progetti deliberatamente organizzati in vista di risultati ben definiti e quelle istituzioni che, invece, si sviluppano in modo autonomo, e in maniera inintenzionale, grazie all’interazione di molte decisioni e innumerevoli scelte individuali. A questo secondo gruppo appartengono le lingue, gli ordinamenti giuridici di common law e, senza dubbio, anche i mercati. Ed è proprio sviluppando questa contrapposizione che Smith elabora la sua analisi sul naturale coordinamento di un’economia e di una società non pianificate.
Come lo studioso americano evidenzia, in varie circostanze la cooperazione si realizza spontaneamente, molto più di quanto vorrebbero farci credere i teorici della strutturale insociabilità umana: Thomas Hobbes e Paul Samuelson, a esempio, ma anche quanti hanno usato la teoria dei giochi per negare la possibilità della cooperazione. Utilizzando talune ricerche di Robert Ellickson, Smith enfatizza invece il ruolo di quegli ordini emergenti in assenza di una legge. A questo proposito, l’autore parla di processi «ecologici», a sottolineare come essi si sviluppino attraverso meccanismi di adattamento, selezione e imitazione.
Dalla lettura del testo di Smith emerge chiaramente come ai suoi occhi la teoria sia importante, poiché non si accosta la realtà senza quadri concettuali e senza ipotesi interpretative. Ma questa prospettiva non può essere un pretesto per evadere dal reale, come troppo spesso succede. Formalizzazione e modellizzazione non devono insomma servire a costruire una paratia fra gli studi e il mondo, fra l’universo delle scienze e i concreti avvenimenti storici.
Nella prefazione al volume, Francesco Guala e Matteo Motterlini ricordano come l’esperimento da laboratorio che Smith pone al cuore della sua pratica di economista sia cruciale, poiché esso va inteso «come banco di prova per valutare la performance di sistemi di regole di mercato specifici, e per progettarne di nuovi».
A ben guardare, è questa in primo luogo una lezione di umiltà: una virtù che ogni scienziato dovrebbe tenere in altissima considerazione.
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