La lezione del professor Deaver: «Scrivere è un lavoro come gli altri»

Il mago del thriller americano ha illustrato agli studenti della Bocconi la sua teoria

Che cosa ci fa Jeffery Deaver in un’aula della Bocconi? Non ha improvvisamente deciso di tornare a studiare Diritto Commerciale né sta per essere insignito di una laurea honoris causa. Non ancora per lo meno, anche se, a giudicare dall’uditorio di studenti attenti e divertiti, dopo l’anomala mattinata milanese di martedì scorso qualcuno potrebbe proporlo per la toga ad honorem.
Come sempre sornione e consumato uomo di spettacolo, nonostante i suoi ammiccamenti al palcoscenico siano stati, a suo dire, esperienze non molto fortunate, il maestro del thriller americano ha accettato di tenere una lezione sulla comunicazione e la costruzione di un bestseller agli studenti del prestigioso ateneo. Quando, dopo le presentazioni di rito, estrae dalla borsa un deodorante, una schiuma da barba e un dentifricio, si leva un lieve mormorio fra gli astanti. Deaver, da vero illusionista della carta stampata, ha imparato che i colpi di teatro fanno il suo gioco, quando si trova a contatto con il pubblico. «Sono questi i trucchi del mestiere», dice, indicando i prodotti per l’igiene intima posati sulla cattedra. «Quello dello scrittore è un mestiere come tutti gli altri. Bisogna farlo bene, bisogna impegnarsi, creare un buon prodotto e, soprattutto, convincere la gente a comprarlo». Di certo ha convinto gli studenti presenti a seguirlo con attenzione e, soprattutto, a comperare i suoi libri al termine della lezione.
Tutto ciò che Deaver vede in Italia lo sorprende e lo intriga. Che sia una finzione anche quella? Assolutamente no, anche perché quello italiano è il suo terzo mercato, il secondo per rapporto popolazione/libri venduti, dopo quello britannico. In questo caso, la sorpresa è rappresentata dal fatto che, per la prima volta, non deve avvalersi dell’interprete. A quanto sembra, gli studenti hanno un’ottima padronanza della lingua inglese e nessuno dà la sensazione di perdersi una sola parola del discorso declamato dall’autore americano, visibilmente compiaciuto. Da parte sua, Deaver non coglie la manifesta tiratina d’orecchie che la docente rivolge all’unica coppia di studenti disattenti. Forse è convinto che in Italia la mancanza di disciplina sia un fatto assodato.
Non tutti sono convinti che scrivere un libro sia un processo meccanico e razionale quanto quello da lui descritto, ma, si sa, Deaver è quasi piccato se qualcuno lo chiama artista. «Sono un artigiano e me ne vanto!» risponde. Non a caso, dunque, cita tra i suoi filosofi di riferimento tre personaggi che filosofi non sono: l’Ispettore Callaghan, Mickey Spillane ed Ernest Hemingway. Per chi conosce Deaver, non è una sorpresa scoprire che la sua massima preferita è il laconico insegnamento che il premio Nobel americano offrì alla categoria dei romanzieri: «Se volete mandare dei messaggi, andate all’ufficio del telegrafo».

E oggi «c’è l’e-mail», aggiusta il tiro Deaver, ovviamente suscitando una rumorosa ondata di consensi. Se non fosse uno scrittore, verrebbe davvero il sospetto che sia un dirigente di una grande azienda di beni di consumo. In fondo, «anche i libri soddisfano delle esigenze. Dunque, perché non trattarli come tali?».

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