Via libera alla manovra che non piace a nessuno

Voto di fiducia: 331 sì e 231 no. Musi lunghi nella maggioranza per le promesse non mantenute. Padoa-Schioppa: «Si volta pagina»

Laura Cesaretti

da Roma

Sfilano per primi sotto il banco della presidenza della Camera, uno dopo l’altro, per votare la fiducia al proprio governo: Romano Prodi in testa e dietro i suoi vicepremier Massimo D’Alema e Francesco Rutelli. Dall’ala destra dell’emiciclo partono lazzi, frizzi e bordate di fischi, ma i tre li ignorano e - fatto il proprio dovere parlamentare - se ne tornano a Palazzo Chigi per occuparsi della spinosa questione del ricambio ai vertici dei servizi.
Intanto la Finanziaria va: ieri il voto di fiducia, oggi l’esame degli ordini del giorno e la votazione finale del Bilancio. Poi si passerà al più turbolento Senato. La fiducia passa senza alcuna scossa, con cento voti di scarto: 331 sì e 231 no. Molti gli assenti dell’opposizione, qualcuno anche nella maggioranza visto che il governo Prodi, al suo debutto parlamentare in maggio, di voti ne aveva incassati 13 di più. Il ministro dell’Economia, silente da giorni, celebra l’evento: «Con questo voto si volta pagina. Gli italiani sappiano che se la Finanziaria compirà il suo iter, non vi sarà alcun incubo di crisi finanziaria». Anzi, dice Padoa-Schioppa, «è aperta la strada per una crescita duratura, anche se molto resta da fare». E Prodi parla della sua Finanziaria come di «un atto di coraggio, un investimento di lungo periodo», e assicura: «Nessuno ha pretese che possa essere applaudita nel primo momento, sarà apprezzata quando inizierà, dall’anno prossimo, a dare i suoi frutti».
I parlamentari del centrosinistra stazionano tra il Transatlantico e il cortile dove si fuma per tutto il pomeriggio di sabato (anche se a un certo punto gli juventini si appartano per seguire la partita, guidati dal ds Fabrizio Morri), e approfittano dell’attesa, mentre in aula si svolge il rito delle dichiarazioni di voto, per scambiarsi informazioni e lamentazioni sul maxiemendamento. Già, perché nessuno sa bene cosa ci sia in quel mega-testo di quasi mille commi che ha sussunto la Finanziaria di Padoa-Schioppa. Neppure il relatore, il pur ferratissimo diessino toscano Michele Ventura. All’ora di pranzo, per dire, il compagno di gruppo Paolo Gambescia (ex direttore di Unità e Messaggero, quindi attento alle vicende della stampa) gli segnala allarmato che pare che dal maxiemendamento siano spariti i fondi per l’editoria destinati ai quotidiani. Ventura cade dalle nuvole e si attacca al telefono cercando il sottosegretario con delega all’Editoria, il prodiano Ricky Levi, e gli chiede conto della sparizione: «Era un impegno che avevate preso con me e con la maggioranza!». Evidentemente strappa una mezza promessa, perché poi dichiara alle agenzie che «i fondi saranno ripristinati in Senato, sicuramente». D’altronde sono decine se non centinaia gli «impegni» che il governo dovrebbe ripristinare a Palazzo Madama, avendoli ignorati a Montecitorio col risultato di far imbufalire mezza maggioranza. Tant’è che il rappresentante del Pdci Napoletano lo sottolinea in aula, rivolto a Prodi: «Per il futuro vi invitiamo a concordare prima, e non dopo, con la vostra base parlamentare i miglioramenti da apportare». E il capogruppo di Rifondazione Gennaro Migliore avverte: «Tutti gli accordi stretti alla Camera dovranno essere mantenuti nella seconda lettura al Senato».
La verità, spiega il socialista Giovanni Crema, è che «la notte del maxiemendamento, giovedì, è successo di tutto e di più: persino Ventura e il presidente della commissione Bilancio Duilio, che avevano titolo istituzionale per seguire la formazione del testo, sono stati allontanati dal governo, che ha fatto come gli pareva». Gli aneddoti che si raccolgono sono decine: fondi per il rilancio degli armamenti, caldeggiati dal sottosegretario ds Forcieri e dal vicepremier D’Alema, spariti su pressione del Prc e dirottati sulla Cooperazione allo Sviluppo (affidata alla bertinottiana Patrizia Sentinelli). E «giochi delle tre carte» dei tecnici dell’Economia, che infilano nel testo del maxiemendamento le richieste di modifica della maggioranza sapendo che di lì a poco verranno dichiarate inammissibili dalla presidenza della Camera perché il governo si è «dimenticato» di depositarle in aula.
Malumori, lamentele, proteste, ma intanto la fiducia tocca votarla, e anche difenderla.

Piero Fassino dice, con un rimprovero neanche troppo velato alla gestione comunicativa del governo, che «man mano che passano i giorni ci si rende conto di quello che all’inizio non è stato reso sufficientemente evidente: questa è una Finanziaria molto ambiziosa».

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