Il 2011 potrebbe portare in omaggio agli italiani una piacevole novità: la caduta di tante foglie di fico che finora hanno coperto molte delle cause dell’immobilismo del nostro Paese. D’altra parte ci sarà pure un motivo per cui solo in Italia, preparando il presepe, se si prova a leggere un articolo del foglio di giornale con cui si sono avvolte le statuine del bue e dell’asinello, gli argomenti non cambiano mai indipendentemente dall’anno del quotidiano. Decenni di riforme «indifferibili» a fronte del nulla più assoluto realizzato, ogni volta con un motivo validissimo perché non cambiasse alcunché. Adesso, però, gli stoppini di molte candele sono diventati troppo corti e qualcuna inevitabilmente finirà con lo spegnersi, sgomberando il campo da confusioni e ipocrisie. Il primo lumino spento è stato quello di Gianfranco Fini, primo degli sconfitti ma ultimo di una lunga serie di guastatori interni ai governi di qualsiasi colore, pronti a mettersi di traverso a ogni cambiamento significativo. Il secondo fallimento è costituito dai nuovi agitatori degli inconsapevoli studenti che puntavano a bloccare la riforma dell’università: riforma approvata, tetti vuoti di persone e pieni di neve.
Un buon inizio, ma il meglio deve ancora venire. Presto arriveranno al pettine i due nodi più grossi: la riforma della giustizia e Fiat contro la strana alleanza Cgil–Confindustria. Quest’ultima, poi, è forse la partita dall’esito più imprevedibile perché vede di fronte «squadre» finora abituate a vincere sempre e con schieramenti che finalmente si stanno rivelando per essere quelli che molti solo sospettavano, ma che tutti negavano, con i rappresentanti degli industriali e la fazione più intransigente degli operai dalla stessa parte contro l’«alieno» Sergio Marchionne. L’ammissione di Susanna Camusso, che in un’intervista rilasciata ieri a Repubblica e ribadita in dichiarazioni successive ha parlato di «interessi convergenti» tra Confindustria e sindacato, è illuminante e fa ben capire da che parte stiano le resistenze al cambiamento in un settore fondamentale quale il lavoro. Secondo il segretario generale della Cgil ci vuole un’esplicita «alleanza» con Emma Marcegaglia che «non si può permettere di restare immobile se vuole evitare che salti, come ha riconosciuto, il sistema della rappresentanza sindacale». Più chiaro di così...
Che nei balletti tra sindacati e industriali ci fosse una buona parte di teatro erano in molti a sospettarlo, che la paura del cambiamento mordesse tutte le parti in commedia appariva sempre più evidente, che il vero «partito del no» della burocrazia contrapposto a chi vuole fare impresa avesse difensori trasversali si poteva supporre, in pochi però si aspettavano una chiamata così esplicita in causa degli «interessi comuni» tra i finti cani e gatti dell’economia italiana.
Marchionne ha avuto il grande merito di mettere una bella clessidra sul tavolo per arrivare a un sì o a un no. Inevitabile, quindi, che chi era abituato a mettere in scena il solito spettacolino del «tavolo continuo di trattativa», del «rilancio della piattaforma programmatica» e altre assurdità, utili solo a tirare avanti senza cambiare nulla, si sia sentito mancare la terra sotto i piedi. Del resto, davanti a un mondo che cambia ogni anno, strillare (come ha fatto la Camusso nell’intervista di ieri) per la mancata applicazione dell’«accordo interconfederale del ’93» significa aver perso (o fingere di aver perso) del tutto il senso della realtà: in quell’anno in Bosnia crollava il ponte di Mostar sotto i colpi dell’artiglieria croata, adesso invece dove c’erano macerie sono sorte fabbriche, con costo del lavoro molto competitivo e porte spalancate a chi vuole investire.
Impossibile nascondere ancora a lungo ai nostri lavoratori che o si cambia o l’alternativa, in Italia, non c’è.
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