Come la vita ci insegna, spesso i titoli, più che aggiungere merito e gloria, li tolgono. Avviene così che, della stessa città, tutti conoscano il Perugino, maestro di Raffaello, e nessuno conosca il Cavalier Perugino, pittore originale e facondo, in una retorica barocca non di secondo piano, come il destino ingrato gli ha imposto. E oltretutto, mutati i tempi e il gusto, titolare di un composto classicismo, di una armonia delle forme, non estranea a quella del suo più grande collega. Perugia è città di armonie, non di drammi.
E Gian Domenico Cerrini, il Cavalier Perugino, è attratto dal classicismo bolognese, risalendo, come indicano le fonti, alla lezione inesauribile di Guido Reni. Allievo a Perugia di Giovanni Antonio Scaramuccia, Gian Domenico si trasferì presto a Roma, dove secondo le fonti si educò proprio nella bottega di Guido Reni (ipotesi improbabile perché il contatto dovrebbe essere avvenuto prima del 1627, ai suoi soli 18 anni). Lo spiccato interesse per i modelli reniani non gli impedì di assorbire altre esperienze figurative, dall'imponente maniera di Cristoforo Roncalli alle seduzioni chiaroscurali del Guercino e all'amplitudine formale di Giovanni Lanfranco, fino al classicismo di Andrea Sacchi e del Domenichino. Al pari di altri maestri operanti a Roma in quel tempo (Cozza, Camassei, Gimignani), Cerrini manifestò un certo spirito di indipendenza nei confronti delle tendenze dominanti ed elaborò uno stile originale, «facilmente riconoscibile per i contorni ondulati, piuttosto morbidi, nei quali egli inserisce campi di colore chiaro e lattiginoso» (Voss). L'artista fu appoggiato da influenti personalità (come Bernardino Spada e Giulio Rospigliosi) ed entrò nel giro della più qualificata committenza romana (Barberini, Chigi, Colonna, Corsini, Pallavicini). È evidente che a Roma egli avrà preferito, a San Luigi Dei francesi, il Domenichino a Caravaggio, che avrà guardato con curiosità proprio Giovanni Lanfranco e Guercino, traendone vitalità ed energia attenuate da una sua inclinazione morigerata e declinazione castigata che ne indicano l'affinità spirituale con il casto e composto Andrea Sacchi. Nella sua prima maturità, tra 1642 e 1643, lo troviamo nella chiesa borrominiana di San Carlino alle quattro fontane con Sant'Orsola e l'Apparuzione della Sacra famiglia alle sante Caterina e Agnese, dove le forme ampie e morbide indicano la consonanza con le pacificate composizioni barocche di Giovanni Francesco Romanelli. Lo vediamo anche nell'Assunta per la cappella Spinelli nella Chiesa nuova (1645 circa), e nel Davide con la testa di Golia nella galleria Spada (1649).
Così, il Cavalier Perugino si avvia alla metà del secolo a rappresentare una delle distinte variazioni del polieloquente barocco romano come si vede nel Martirio di San Sebastiano della galleria Colonna e nel San Giovanni Battista nella chiesa di Sant'Angelo Magno ad Ascoli Piceno. Tra il 1654 e il 1655 Cerrini dipinge la cupola di Santa Maria della Vittoria, un'antologia del suo repertorio figurativo in sostanza estranea alle novità delle cupole barocche, stimolando polemiche nell'ambiente romano, cui non si era totalmente assimilato. Il pittore si trasferì quindi a Firenze, presso la corte medicea, dal 1656 al 1661, realizzando numerose opere di sobria tenuta classicista. Tornato a Roma, mostrò un lento ma progressivo avvicinamento alle nuove tendenze barocche.
È in questi avvicendamenti che, in una originale riflessione sull'opera di Raffaello, Cerrini dipinge una delle sue opere compositivamente più complesse: il San Pietro che risana gli infermi con la sua ombra, ora nella Fondazione Cavallini Sgarbi. La quantità di figure, la monumentalità, la inconsueta impaginazione architettonica, suggeriscono che la tela, pur nella sua completezza, annunci un dipinto di grandi dimensioni, una pala d'altare o il modelletto per una restituzione in arazzo o mosaico. Francesco Federico Mancini, lo studioso che più si è applicato a decifrare lo stile impenetrabile del Cavalier Perugino, osserva: «la figura di San Pietro dialoga da vicino, nel suo impianto decisamente monumentale, con le bibliche figure del Mosè e Aronne delle Gallerie statali di Firenze (1661). Piuttosto inusuale è, per Cerrini, l'inserimento di architetture classiche come fondali del racconto. Potrebbe essere una risposta alle sollecitazioni cortonesche di Palazzo Pitti». Aggiungo, nel ritmo, un richiamo esplicito alla Trasfigurazione di Raffaello. Il vento del barocco qui si placa come sarà nella stagione fiorentina.
Un altro dipinto esemplare, in parallelo con l'esperienza di un purista come Giovanni Battista Salvi di Sassoferrato, ma più vivido e spiritoso, come suole essere il Cerrini, è la Madonna con il Bambino, recentemente entrato nella Fondazione Cavallini Sgarbi, e ora esposto nella mostra al Castello Estense di Ferrara. Nel formato rettangolare, il Cerrini ha enucleato un ovale, come per sottolineare l'ideale aureola, o mandorla, di una apparizione. Il lindo dipinto, che ben s'iscrive in una produzione «da stanza» con la quale Cerrini ottenne un vasto successo, gli fu probabilmente commissionato da un devoto della Beata Vergine del Carmelo, come indica la presenza degli scapolari di color bruno tenuti in mano dalla Vergine. Al suo fianco Gesù Bambino, ritto, con le gambe incrociate, sul piano di un tavolo, la stringe con disinvolta tenerezza. Entrambi, con lo sguardo candido, invitano lo spettatore a condividere i loro amorevoli sentimenti. Derivata dai modelli del classicismo bolognese, in tardivo omaggio a Guido Reni, l'opera rivela i caratteri tipici dell'apollineo linguaggio del Cavalier Perugino nel suo momento migliore: la purezza del disegno, il cromatismo smaltato, la nitida tavolozza giocata sull'accostamento di tinte fredde, la morbidezza dei panneggi e la voluta idealizzazione delle figure.
L'esecuzione della Madonna con il Bambino sembra dunque porsi entro la metà del sesto decennio del Seicento, ossia prima del forzato soggiorno fiorentino, quando Cerrini avrebbe scelto una pittura più ombrosa e macchiata. Con i sensi castigati.
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