Controcultura

Lombardi Vallauri «L'Himalaya è il custode della Tradizione»

Luca Gallesi

I nglese di origini greche, Marco Pallis (1895-1989) ha vissuto come un uomo del Rinascimento: musicista, compositore, alpinista, scrittore, studioso di religioni e appassionato cultore del buddismo tibetano, che cominciò a conoscere e apprezzare sin dagli anni Venti, fino a diventarne, quarantenne, un fervido praticante, affiliato (...)

(...) a un ordine monastico col nome di Thubden Tendzin.

In quell'epoca, conobbe e strinse amicizia con Heinrich Harrer, il tedesco protagonista di Sette anni in Tibet, e con il celebre lama Chogyam Trungpa, successivamente autore del bestseller Nato in Tibet. Dopo la rovinosa invasione cinese, Pallis moltiplicò i suoi sforzi per difendere la cultura e la civiltà tibetana, scrivendo libri e tenendo conferenze in tutta Europa. I suoi studi lo conducono, così, alla conoscenza e all'approfondimento della scuola di pensiero tradizionale, di cui oggi è considerato un autorevole esponente, insieme con René Guénon, Ananda Coomaraswamy e Frithjof Schuon.

Da pochi giorni è finalmente tornato in libreria uno dei più bei saggi di Pallis, Il Loto e la Croce (Iduna, pagg. 254, euro 24), arricchito da una nuova introduzione di Luigi Lombardi Vallauri, docente di Filosofia del Diritto, alpinista e, soprattutto, fervido cultore della sapienza orientale.

Professor Lombardi Vallauri, nella sua Introduzione, afferma che Il Loto e la Croce le ha nutrito la mente e il cuore, dato che sin da bambino sentiva trasporto per «il paese della Terra più vicino al cielo». Come mai?

«Soprattutto per tre motivi: perché ho fatto un meraviglioso viaggio in Tibet muovendomi sui 4500 m, circodeambulando il Kailash, la montagna più sacra dell'umanità, che viene percorsa dandole la destra dagli induisti e dai buddisti e dandole la sinistra dai Bön. È stata una esperienza straordinaria per la vicinanza continua al cielo e, almeno per quanto riguarda il Tibet che ho visto io, per la natura desertica; non c'è nulla tranne l'erba setola, nutrimento che solo lo stomaco dello yak è in grado di digerire; quindi, i buddisti tibetani, che non dovrebbero mangiare carne, come faccio io che sono vegano, si nutrono interamente di yak, animale sulla cui esistenza si basa tutta la loro vita: vestiti di yak, tende di yak, corde di yak. Mi colpì molto questo vastissimo deserto così vicino all'altrettanto vasto cielo, con dei laghetti piccolissimi, perché l'Himalaya blocca il giungere delle nuvole dal mare».

E la seconda cosa?

«Il sorprendente pensiero spirituale del Tibet, che troviamo addirittura, come ricorda Pallis, inciso sulle rocce. Sui sassi, scolpito nelle pareti verticali, dappertutto, si può vedere il celebre mantra che io leggo così: Om Mani Padme Hum, che, scorrettamente, interpreto così: Io mi inchino a Te, ogni uomo, e non solo, perché mi inchino anche ad altri esseri viventi; mi inchino a Te, gioiello della mente che risplendi nel fiore di loto del corpo cosmico. Questo inchino alla meraviglia dell'altro, in particolare del vivente umano e del vivente senziente animale, è il mio credo, che onoro da molti anni. E poi, volendo ricordare il terzo elemento, c'è stata una specie di vocazione sin dall'infanzia...».

Come accadde?

«Sentii parlare di Giuseppe Tucci, figura esemplare ricordata recentemente anche in un programma televisivo a lui dedicato; allora mi sono detto - e sottolineo che ero proprio piccolo - che forse la sua sarebbe stata una vita con la quale avrei cambiato la mia. Detto da un bambino di otto anni, nel 1944, quando avevo ancora tutta la vita davanti, fu come una folgorazione, e da allora, oltre a coltivare la mia passione per il Tibet, ho maturato la convinzione che Tucci sia stato il più grande italiano del Novecento».

Dobbiamo parlare anche di alpinismo, che sulle montagne più alte diventa una sfida estrema e a volte un po' superficiale. Pallis ha molte riserve sull'alpinismo inteso come sport.

«Condivido queste critiche».

Perché, secondo Lei, l'alpinismo non è uno sport?

«Potrei rimandare al mio libro Meditare in Occidente. Corso di mistica laica (Le Lettere, 2015), le cui ultime otto lezioni sono di mistica del paesaggio, che inizia con la montagna. Spiego, in particolare, cos'è la sensazione della cima conquistata, che ovviamente non è stata raggiunta con l'elicottero ma con la fatica della salita. Allora sei, per così dire, fuori dalla terra, per quanto ciò sia possibile all'uomo. La seconda cosa che descrivo, oltre alla sensazione della cima, è il vagabondaggio di altura, che io faccio nei miei annuali Ritiri Milarepa (finora ne ho già fatti quindici). Metto la tenda, con pochissimi amici, a 2500 metri, vicino a un lago o una sorgente delle Alpi occidentali, specialmente della Valle Maira, e ci impegniamo a tacere per tre giorni, immergendoci completamente in quell'oltre che è proprio la dimensione di Milarepa, massimo guru della mia vita, sommo mago, dottore in buddismo eterodosso e poeta del Tibet. Sono tutte esperienze spirituali, lontanissime da qualsiasi velleità sportiva o tentazione agonistica».

Tutto questo, secondo Pallis, porta a una critica radicale del mondo moderno, «materialista e suicida». È d'accordo?

«Direi che sono d'accordo in modo chiaroscurale... È chiaro che dalla tecnica abbiamo ottenuto cose straordinarie, ma, al tempo stesso, non temo di definirmi un critico dello scientismo tecnologico unito all'industrialismo sfrenato e al capitalismo fine a se stesso. Quindi, se dovessi scegliere un simbolo per il mio ideale di modernità sceglierei il pesce taoista: il pesce nero e il pesce bianco complementari, con dentro il principio opposto. In questo, dunque, non posso seguire interamente la critica radicale di Pallis».

Luca Gallesi

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