La lotta spietata di Tunisi per fermare il terrorismo

La sconfitta del Califfato ha spinto i jihadisti verso ovest. E il governo ha prontamente reagito

La lotta spietata di Tunisi per fermare il terrorismo

A quasi nove anni dalla primavera araba la Tunisia resta al bivio. Di tutte le rivoluzioni che hanno preso il via proprio dal Sud del Paese, nel dicembre del 2010, quella tunisina è l'unica che ha portato a una transizione, con tutti i suoi limiti, democratica e ha gestito meglio il fattore islamista. Ma Tunisi, la capitale araba più vicina alle coste europee, è ancora esposta a minacce e sfide formidabili, anche per la crisi economica che non è mai stata superata del tutto dopo la cacciata del raìs Ben Ali, morto a settembre a Gedda. E non è neanche del tutto alle spalle l'instabilità politica, specie dopo la scomparsa a luglio del presidente Mohamed Beji Caid Essebsi che ha portato a nuove elezioni e all'ascesa al vertice dello Stato del conservatore Kaïs Saïed. In questo contesto il terrorismo jihadista e i flussi migratori incontrollati restano un problema irrisolto. La sconfitta dell'Isis in Siria e Irak ha spinto i gruppi islamisti a guardare verso ovest. Sia Al Qaida sia lo Stato islamico cercano di reclutare nuovi adepti, giovani disagiati, in tutto il Maghreb, Algeria, Libia e anche Tunisia.

Gli eredi di Osama Bin Laden contano su Ansar Al Sharia, il più organizzato gruppo salafita nel Paese. L'altra branca di Al Qaida attiva è Aqmi, che però ha il suo centro di gravità più verso il Sahel. L'Isis ha come punto di riferimento per tutto il Nord Africa il tunisino Jalaluddin al-Tunisi. Nato nel 1982 nella regione di Sousse, immigrato in Francia da bambino, è tornato in patria dopo la rivoluzione dei gelsomini per poi partecipare alla rivolta contro Bashar al Assad in Siria. Nel 2013 si è unito all'Isis ed è diventato uno dei comandanti preferiti del califfo Abu Bakr al-Baghdadi eliminato la scorsa settimana dalle forze speciali americane. Ma la minaccia dell'Isis è tanto più forte perché almeno seimila tunisini si sono uniti ai gruppi jihadisti in Siria, e altri 1.500 sono andati a combattere in Libia. Centinaia sono tornati in patria, anche se un gran numero è morto al fronte.

Di fronte alla minaccia jihadista, la giovane democrazia tunisina ha rispolverato gli apparati di sicurezza ancora efficienti. Le forze speciali tunisine, a gennaio 2018, hanno ucciso Bilel Kobi, uno dei principali esponenti di Aqmi. Anche Hamza al-Nimr, un algerino che si era affiliato ad Al Qaida nel 2003 e avrebbe dovuto guidare una cellula in Tunisia, è stato ucciso nella stessa operazione. Ma la sola repressione non basta. «La Tunisia ha grossi problemi, ci sono delle regioni molto povere e arretrate. Anche se le forze di sicurezza sono efficienti - spiega Karim Mezran, analista dell'Atlantic Council di Washington - resta una sacca di malcontento che spesso si è espressa nella militanza islamista radicale». Dopo i tremendi attentati al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse nel 2015, con decine di turisti europei trucidati, né l'Isis né Al Qaida sono riusciti più a colpire con quella forza. Ma il 28 giugno Tunisi è stata scossa da due attentati, con un poliziotto ucciso e altre otto persone ferite. L'attentatore per camuffarsi indossava un niqab, il velo integrale usato dalle donne, e per questo il primo ministro Youssef Chahed ne ha vietato l'uso nelle istituzioni pubbliche «per motivi di sicurezza».

«Non si sa bene la derivazione degli attacchi avvenuti nel Paese: lupi solitari, Al Qaida, Isis Il quadro è nebuloso - precisa Mezran -. Non sono due squadre di calcio, sono spesso terroristi fai-da-te». Questi jihadisti mirano soltanto alla destabilizzazione e non hanno un progetto a lungo termine. «Non c'è un piano politico - conferma l'analista -. Pensano piuttosto: Voi odiate l'islam e noi ve la facciamo pagare». Proprio per questo non è da escludere la possibilità che in Italia arrivino terroristi dalla Tunisia via mare: «Possono arrivare attraverso i canali creati dagli scafisti. Potrebbe succedere che arrivi sul territorio italiano un tunisino che sappia costruire le bombe e voglia creare un network jihadista. Non è finora successo, ma può accadere». Anche perché «il legame con la criminalità organizzata è sempre più evidente», ricorda Arshin Adib-Moghaddam, professore alla Soas di Londra.

Non bisogna però sottovalutare le altre cause. «Il terrorismo ha molto a che fare con la brutalizzazione in contesti come guerre, prigioni o altre situazioni caratterizzate da violenza politica e sociale», aggiunge Moghaddam. Un altro fattore di rischio è l'aumento di importanza della rotta dalla Tunisia per l'Italia, la più battuta dopo l'accordo del governo italiano con le autorità libiche scaduto il 2 novembre. Molti viaggi ora partono dalle coste tunisine. Ma alcune misure preventive sono già attivate. Nel febbraio 2016, la Tunisia ha annunciato di avere completato la prima parte della barriera lunga 125 miglia lungo il suo confine con la Libia. Gli Stati Uniti hanno intenzione di finanziare un progetto da 24,9 milioni di dollari per installare un sistema di sorveglianza elettronico al confine con la Libia.

Nella lotta al jihadismo la Tunisia ha mostrato continuità ed è entrata a far parte della Global Coalition Against Daesh già nel settembre 2015. «I movimenti terroristici - avverte Moghaddam - tendono a penetrare nei Paesi in cui il monopolio sulla violenza legittima è indebolita».

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