Luca Carboni: «Il mio pop è impressionista E “Senza titolo”»

Milano Il suono è inconfondibile, la voce pure, insomma è il nuovo disco di Luca Carboni, uno dei pochi artisti che è sopravvissuto agli anni Ottanta senza sopravvivere stancamente a se stesso. È cresciuto, anzi. E il nuovo cd, il primo di inediti dopo cinque anni, curiosamente si intitola Senza titolo perché non ne ha per niente bisogno. «Il nuovo singolo Cazzo che bello l’amore di Luca Carboni è favoloso», ha twittato più o meno Cesare Cremonini l’altro giorno. E tutte le dieci canzoni hanno un’energia che era difficile attendersi da un artista che ha esordito da solista ventisette anni fa. «L’importante è osare», spiega lui, sorridendo sornione davanti a un bicchiere di Valpolicella.
Scusi Carboni, si spieghi meglio.
«Bisogna sempre tentare di raccontare qualcosa di nuovo. E metterci la musica giusta: in Senza titolo ho mescolato elettronica e acustica».
Ma perché quel titolo?
«Ho finito tutti gli stratagemmi per usare il mio nome come titolo. E quindi ho sfruttato un escamotage pittorico. I pittori spesso usano la definizione “Senza titolo” per le proprie opere».
Il pop di Carboni è espressionista, impressionista o che cosa?
«Intanto credo che non ci sia una gran differenza tra scrivere canzoni e dipingere un quadro, io mi sento realmente impressionista. Nei miei testi emergono le mie impressioni, le mie emozioni. Sempre».
E anche la sua vita. Come in Provincia d’Italia.
«Vero. Oltretutto, da poco mi sono trasferito dal centro di Bologna, dove ho vissuto per anni, all’Appennino toscoemiliano, a metà tra Savigno e Zocca. Ho fatto una vita isolata, è tuttora un’esperienza bucolica. Meraviglioso».
Com’è la provincia?
«Chiusa, talvolta anacronistica. Dopo tanti anni spesso non si vede nessun segnale di integrazione con gli extracomunitari, ad esempio».
Anche la canzone d’autore italiana sembra un po’ chiusa.


«Beh, è difficile chiedere ad artisti come De Gregori o Guccini di rinnovarsi continuamente. Piuttosto, manca la canzone d’autore moderna. E la responsabilità è anche di chi, come i discografici, una decina di anni fa ha smesso di crederci».

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