Controstorie

L'ultima trincea comunista ai piedi di Cina e Vietnam

Infrastrutture in cambio di risorse, il Laos si affida a Pechino cercando di non irritare Hanoi

L'ultima trincea comunista ai piedi di Cina e Vietnam

Luang Prabang - Mekong. Lentamente scendiamo il grande fiume. Il motore della barchetta sbuffa, arranca e poi riprende. Lasciate alle nostre spalle le grotte sacre di Pak Ou, il sancta sanctorum dei buddisti locali, puntiamo su Luang Prabang, l'antica capitale del Laos. Con calma, molta calma. Questo serpentone liquido color caramello 4.350 chilometri d'acqua che scorrono dai monti dal Tibet, attraversano il Myanmar (l'ex Birmania), il Laos, la Cambogia, e sfociano nel delta del Vietnam meridionale pretende da chi lo percorre abilità e pazienza. Il Mekong va rispettato. È l'idrovia dell'Indocina ed è la ragione di vita, la fonte di sostentamento per sessanta e più milioni di persone. Da millenni è sinonimo traffici, riso e pesca. Vita.

Oggi il Mekong soffre. Per tanti motivi. La navigazione diventa difficile per i banchi di sabbia che affiorano dalle acque, mai così poco profonde. «È colpa dei cinesi e delle loro maledette dighe. Ne hanno costruite almeno undici a casa loro e i risultati si vedono», sussurra il timoniere che poi aggiunge con un mezzo sorriso «adesso però hanno altri problemi», e mi indica un imponente ponte a sei campate. Si tratta del tassello centrale del corridoio ferroviario cino-laotiano, un filo d'acciaio di 417 chilometri che attraversando 76 tunnel e 154 ponti dovrebbe collegare Boten in Cina a Vientiane, l'attuale capitale del Paese, e da qui prolungarsi sino ai porti della Thailandia e della Malesia per poi scendere sino allo Stretto di Malacca e stendere una linea tra Singapore e Kunming, la capitale dello Yunnan. Complessivamente tremila chilometri di binari con un costo stimato di otto miliardi di dollari.

Mi affaccio incuriosito ma sul ponte, ancora incompleto, non c'è anima viva. Le gru, abbandonate, brandiscono inutilmente le loro braccia nel vuoto e nessuno si affaccia dal cantiere. Vuoti i magazzini, vuoti i parcheggi. Tutto fermo, tutto sospeso.

«A fine gennaio i cinesi hanno fatto le valigie a causa dell'epidemia, e chissà quando torneranno». L'apertura del tronco laotiano, prevista per dicembre 2021, continua così a slittare e intanto i costi continuano a salire. Fatalmente, il brusco stop imposto dal dilagare del coronavirus ha messo in crisi gli accordi presi nel 2012 tra i due governi: per il segmento che lo riguarda il piccolo Laos si era impegnato a contribuire con 840 milioni di cui 500 prestati dai potenti vicini. E poiché fidarsi è bene e non fidarsi è meglio, i mandarini di Pechino hanno voluto in garanzia dai loro clienti una miniera di bauxite e tre di potassio.

A Vientiane il potere è in imbarazzo. L'imprevista pausa ferroviaria e la paura del contagio con gli evidenti riflessi sull'export agroalimentare e il turismo si sommano ad altri problemi. Nel biennio 2018-19 la crescita del Pil, aumentata dal 2000 a tassi superiori al 7 per cento, si è ridotta a meno del 6 dopo il collasso nel 2018 della diga di Xe-Pian Xe-Namnoy nel sud-est del Paese. Il disastro, un intreccio fatale tra fortissime piogge monsoniche e cattiva manutenzione, ha rovesciato sui villaggi circostanti 5 milioni di metri cubi d'acqua, causando centinaia di morti e lo sfollamento di migliaia di persone ma, soprattutto, ha rallentato l'ambizioso piano energetico varato dal governo. Il presidente Bounnhang Vorachith padre padrone dell'opaca cupola comunista che dal 1975 qui controlla ogni cosa vorrebbe trasformare il Paese nella batteria d'Asia, l'hub energetico dell'Indocina. Per raggiungere l'obiettivo sul Mekong e i suoi affluenti è prevista a breve l'attivazione di circa 100 centrali (con una capacità idroelettrica di 27mila MW) per esportare energia verso Bangkok e negli altri paesi limitrofi.

Il tracollo della diga ha però allarmato la popolazione e gli ambientalisti, raffreddato gli interessi degli investitori stranieri (thailandesi in primis) e inquietato il Vietnam, un vicino potente molto attento alla sorte del grande fiume e per nulla entusiasta sull'annuncio di un ulteriore sbarramento a Houygno, nei dintorni della vecchia capitale.

In occasione del nono forum del Mekong River Commission (l'autorità internazionale che monitorizza le attività fluviali) tenutosi a Luang Prabang lo scorso cinque marzo, i ministri vietnamiti hanno espresso importanti riserve sul piano laotiano. Al termine della riunione la portavoce del ministro degli Esteri di Hanoi ha avvertito gli uomini di Vientiane sulla necessità «di un coinvolgimento di tutti gli Stati rivieraschi nella gestione del Mekong al fine d'assicurare l'armonia tra le nazioni ed evitare impatti negativi sulle popolazioni». Insomma, non fateci arrabbiare, l'acqua è di tutti

Se il modello di «economia di mercato socialista», varato alla fine degli anni Ottanta dal Partito Rivoluzionario Popolare, inizia ad arrancare sotto il peso degli eventi, il regime rilancia la carta religioso-patriottica, riaprendo e restaurando pagode e templi o rivalutando le tradizioni monarchiche per anni rimosse e censurate. Da tempo, in un bizzarro tripudio di bandiere nazionali e di drappi con la falce e martello, si innalzano ovunque le statue degli antichi sovrani e il complesso del palazzo reale è stato ripulito e trasformato in un museo nazionale. La modesta reggia eretta nel 1904 in stile Beaux Arts da architetti francesi un omaggio di Parigi al tempo del protettorato , racconta la storia della dinastia che ha governato per secoli il Paese, ma sorvola sulla misteriosa morte di Sagan Vattham, l'ultimo sovrano scomparso, attorno al 1978, in un campo di rieducazione comunista. Nel parco resta l'enorme monumento dedicato a suo padre, Sisavanga Vong.

Circondato da fiori e incensi.

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