Un lunghissimo trip, un viaggio molto acido, con un retrogusto di Lsd e marijuana, durato dal 1968 ai primi anni Ottanta. Un viaggio non sempre allegro però, fatto in compagnia di tutti quelli che abbiano davvero contato qualcosa nella New York che culturalmente conta. Un gran morso, dato con gusto rabbioso, a tutto quello che di trasgressivo - quando la parola faceva ancora rima con creativo - era contenuto nella Grande Mela allucinogena, quella che Andy Warhol dipingeva e Helmut Newton fotografava e Patti Smith cantava.
La vita di Cherry Vanilla, al secolo Kathleen Anne Dorritie, potrebbe essere riassunta così. Un percorso tortuoso e che ha dell’incredibile che ha portato questa ragazzina, nata il 16 ottobre 1943, figlia di un netturbino, a intercettare e immancabilmente a cavalcare (ogni doppio senso è voluto e a Cherry Vanilla graditissimo) tutti i mutamenti che con l’esplosione del Flower Power hanno contribuito a trascinarci verso il postmoderno. E visto che, come scrive Zygmunt Bauman, il postmoderno è liquido, definire Cherry Vanilla - della quale esce l’autobiografia Lick Me. Come sono diventata Cherry Vanilla (Odoya, pagg. 316, euro 20) - è davvero complicato. Ecco un elenco sommario delle sue attività: groupie, musa, cantante, attrice, amante, pubblicitaria, dj sperimentale, «fattona»...
Ma in realtà questa signorina che ha usato il suo corpo in tutte le maniere possibili, ha avuto soprattutto un talento: quello di finire inevitabilmente vicino a tutti i grandi del “rinascimento” newyorkese. C’è un reading di Lawrence Ferlinghetti e Allen Ginsberg? Lei è lì e poi fa poesie che finiscono sulla rivista Circus. Andy Warhol si dedica al teatro e con Tony Ingrassia mette in scena il ferocissimo Pork? Cherry che non ha mai recitato finisce a fare la protagonista perché a Andy piace come canta inni sacri. E quando la pièce va in trasferta a Londra Cherry diventa uno dei “ponti” che condurranno l’astro nascente del pop britannico David Bowie verso gli States. E nel frattempo a Londra conosce Jim Haynes, vero guru degli scrittori underground e affascina anche lui...
Certo di mezzo c’erano spesso questioni di letto - Cherry che nel suo libro si definisce «puttanella pop» non fa mistero del fatto che «a seconda della droga e dell’occasione, ho utilizzato ogni orifizio e ogni strumento di piacere che Dio mi ha dato» - ma è indubbio che è stata davvero una musa, a volte fugace a volte duratura, per moltissimi artisti: tipo Johnny Winter, Kris Kristofferson accalappiato con una poesia e strappato a Patti Smith, altra grande poetessa del Rock... E se la sua partenza è stata quella di una qualunque groupie, la sua intelligenza è stata diversa: «Ero già una sorta di donna d’affari di 26 anni, mentre quelle ragazze erano per la maggior parte adolescenti».
Ecco perché la sua biografia è davvero uno spaccato di storia in cui a ogni angolo spunta un pettegolezzo divertente - come quando il povero Rudolf Nureyev si presentò a una festa al Plaza Hotel dove c’erano anche Bowie, Mick Jagger e Bette Midler ma quelli si chiusero in uno stanzino snobbandolo e lui si offese moltissimo - oppure un dettaglio, un retroscena che svela il clima di una città che è stata per il Novecento quello che Firenze fu per l’Umanesimo. E nel raccontare, Cherry ha anche una sua capacità affabulatoria, il libro scorre via come una canzone molto orecchiabile. Anzi il gusto dell’accumulazione, della narrazione per eccesso, ricorda un po’ quello dei grandi della Beat Generation. E se la prosa non è sempre eccezionale, supplisce la vita vissuta o sognata (con tutte quelle gelatine alla mescalina...).
E nel libro non manca nemmeno la presa di distanza, il senso del tempo. L’esplosione colorata della fine degli anni Sessanta è descritta come il sogno effimero che fu, già morto e sepolto sotto una coltre commerciale nel 1970: «La puzza di popper appestava le piste da ballo.
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