Müller, un autore a cavallo del Muro

A quindici anni dalla morte ancora non sappiamo se collocare Heiner Müller tra gli scrittori che hanno fatto il loro tempo (il periodo tra la Guerra Fredda e la Glasnost’) o se invece correre a recuperare con urgenza le sue opere, dal momento che alcune ci appaiono più che mai attualissime, sfolgoranti di intelligenza poetica e politica. Müller rimane un mistero - il mistero dell’ambiguità - e così è meglio per tutti, lettori e detrattori. Forse solo un premio Nobel avrebbe contribuito a sbilanciare la sua immagine, trascinandolo a peso, ma a torto, «dalla parte giusta», politicamente corretta. Ad ogni modo, la sua autobiografia Guerra senza battaglia (Zandonai, pagg. 372, euro 26) arriva finalmente nelle nostre librerie. Gli ammiratori già conosceranno l’altro suo libro di culto, Tutti gli errori. Interviste e conversazioni 1974-1989 (Ubulibri), e il suggestivo documentario Io ero Amleto che gli ha dedicato Dominik Barbier. Nonché, naturalmente, le grandi opere teatrali che lo fecero diventare l’erede indiscusso di Brecht e il «Beckett della Germania dell’Est»: Lo stakanovista, Filottete, Mauser, Germania - Morte a Berlino, Hamletmaschine e parecchie altre che attirarono, indifferentemente, le ire e gli elogi del Partito Comunista, le (auto)censure e i premi nazionali.
In Guerra senza battaglia - una vertiginosa carrellata di interviste autobiografiche riscritte a partire dalla sbobinatura di oltre mille pagine di conversazioni tra Müller, la sua compagna, il suo assistente e il caporedattore della casa editrice Kiepenheuer & Witsch di Colonia - ritroviamo una certa atmosfera alla Heimat e uno stile incisivo. Alcuni lettori proveranno persino, leggendo queste pagine, una sorta di «ostalgie», di nostalgia per la DDR e per quel suo specifico clima intellettuale fatto di finissime analisi socio-politiche (le antenne degli scrittori dovevano essere lunghe e vibratili per sfuggire ai microfoni nascosti e alle delazioni dei colleghi), di aneddoti e barzellette tra lo spassoso e l’agghiacciante, momenti esistenziali gelidi ma intensi.
Vissuto «con una gamba di qua, l’altra di là dal Muro», «posizione schizofrenica ma tra le più realiste», e sotto un dittatura che ironicamente diceva essere «più necessaria del mercato» per fare del buon teatro, Müller attraversò gli anni Settanta e Ottanta con «strategico opportunismo». Venne odiato da molti, per questo. Ma i suoi sigari, i periodi di povertà intervallati da successi economici, le T-shirt nere sotto le giacche nere, la leggendaria montatura degli occhiali e certe cene in inarrivabili ristoranti di Berlino Ovest (era uno dei pochi ad avere il passaporto) lo resero uno degli uomini comunque più in vista di quegli anni.

Ritroviamo tutto ciò in Guerra senza battaglia, insieme alla sua difesa dall’accusa di essere un «collaboratore informale» della Stasi e alla dichiarazione, reiterata tra le righe in tutte le pagine, che quel che più gli era essenziale era scrivere, meglio ancora se «a cavallo del Muro». Un comunista pavido? Un capitalista mancato? Comunque un vero drammaturgo.

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