Macché inglesi, l’Impero «modello» fu quello spagnolo

Dopo aver assistito al crollo dell’Impero sovietico e alla presenza, ora, dei primi gravi scricchiolii di quello statunitense, potrà essere utile riflettere sul trionfo e la caduta dei grandi Imperi del passato. L’occasione ci viene offerta dalla recentissima traduzione italiana di Imperi dell’Atlantico. America britannica e America spagnola, 1492-1830 (Einaudi, pagg. 684, euro 52), di John H. Elliott. Un «grande libro», capace di utilizzare tutte le risorse della storia comparata per illustrare il moto propulsivo del Vecchio Continente verso il Nuovo Mondo, la cui lettura potrebbe utilmente incrociarsi con la sintesi di A.R. Disney (History of Portugal and the Portoguese Empire, Cambridge University Press, 2009), che narra l’ambizioso volo del terzo maggiore Impero europeo partito dalle foci del Tago per la conquista dell’Angola, del Brasile, di Macao.
Il lavoro di Elliott sfata molti luoghi comuni, in particolare quello relativo alla radicale difformità tipologica degli Imperi coloniali latini nei confronti di quello anglosassone. I primi due definibili come «società coloniali immobili» che riflettevano, dopo la seconda metà del Seicento, lo stato di arretratezza delle rispettive madrepatrie, il terzo, invece, presentato come una «società coloniale innovativa», capace di rispondere adeguatamente anche alle più critiche «situazioni di frontiera» grazie a un robusto individualismo che divenne poi l’elemento più importante del «carattere nord-americano». In quest’ottica, l’Impero cattolico di Madrid assumeva la fisionomia di un «Impero di conquista e di popolamento», impegnato nello sfruttamento agricolo consuetudinario delle nuove terre, mentre i vasti dominions britannici si caratterizzavano come l’«Impero del commercio» aperto al nuovo spirito «capitalistico» del rischio imprenditoriale, favorito dai principi della religione calvinista.
Elliott rifiuta questo stereotipo, sostenendo che l’interazione fra atteggiamenti mentali importati e le difficilissime condizioni locali imponevano nella stessa misura, ai coloni iberici e britannici, di trovare risposte che divergevano nettamente dai costumi della loro patria d’origine. La Nueva España non era la vecchia Spagna, né il New England era la vecchia Inghilterra e in esse soffiava egualmente impetuoso lo stesso «spirito di frontiera» che avrebbe costituito l’«epica di una Grande America», estesa dal Massachusetts al Messico, alle regioni andine. Questa è la linea forte sviluppata da Elliott in un’analisi che diviene «storia globale» della conquista del continente americano attenta alle condizioni di vita materiali, alle nuove forme di arte e di religiosità, ai rapporti economici, culturali, politici che si svilupparono nei «mondi al di là del mare».
Merito particolare di Imperi dell’Atlantico è però soprattutto il ridimensionare la leggenda dorata che per molto tempo ha visto nella colonizzazione britannica una sorta di «colonizzazione dal volto umano», e la leggenda nera che ha considerato quella spagnola una tirannia spietata, condizionata dal mito razzistico della cosiddetta «purezza del sangue», naturalmente portata a degenerare nello sterminio e nella schiavizzazione delle popolazioni indie. Eppure proprio in quella «società rude, insensibile, orgogliosa», diversamente da ciò che accade nel Nord America, bianchi e indios si trovarono quotidianamente in contatto, mescolarono le loro identità etniche in seguito a matrimoni e concubinaggi, tanto che alla fine del Seicento, nel Nuovo Messico, quasi tutta la popolazione finì per divenire di razza mista. Complice anche il carattere inclusivo della religione cattolica, gli insediamenti iberici divennero un punto d’incontro per lo scambio di beni, servizi, relazioni umane e costituirono una «terra di mezzo» in cui le azioni e i comportamenti di entrambe le parti sarebbero diventate reciprocamente comprensibili e accettabili.
Anche il rapporto tra coloni e madrepatria si presentò diverso nel Nuovo Mondo spagnolo e in quello inglese. Londra finì per ridurre progressivamente le autonomie politiche e commerciali dei propri domini atlantici obbligati a entrare come soci di minoranza nel grande mercato comune del suo Impero. Madrid al contrario estese anche ai suoi possedimenti extraeuropei un modello imperiale che coniugava accentramento e autonomia: il solo in grado di gestire una spazialità immensa e profondamente diversificata. Le due forme di governo determinarono anche il differente crollo dei due Imperi: il primo prodotto da un fattore interno (la Rivoluzione americana del 1776), l’altro da un evento esterno (l’invasione francese della Spagna dal 1808 al 1814), che avrebbe allentato e poi dissolto i legami con la madrepatria, portando alla costituzione delle repubbliche indipendenti di Cile, Perù, Argentina, Rio de la Plata, Paraguay, Messico.
Favorito dalla diplomazia inglese che tentava in questo modo di rientrare nel grande gioco americano, lo sganciamento delle antiche colonie dall’orbita madrilena lasciava queste deboli formazioni politiche esposte all’irruento espansionismo statunitense. Nasceva in questo modo un nuovo Impero che si connotava in termini di conquista, con l’annessione di Texas, California, Nuovo Messico e Arizona, ma soprattutto in quelli di egemonia economica.

Le ambizioni, non più tradizionalmente imperiali ma ormai imperialistiche, del governo di Washington trovavano la loro giustificazione nella «dottrina» formulata dal giornalista John O’Sullivan nel 1845, dove si enunciava il Manifest destiny della Confederazione statunitense a «impadronirsi dell’intero continente americano, dal Golfo del Messico, alla California, al Canada, donatole dalla Provvidenza per lo sviluppo di un grande esperimento di libertà», anche contro le leggi e gli accordi internazionali che fino a quel momento avevano disciplinato i rapporti tra Stato e Stato.
eugeniodirienzo@tiscali.it

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