Macché ’ndrangheta e rivolte, ne uccide di più l’appendicite

Una neonata che muore in Calabria perché il reparto di ostetricia e ginecologia del suo paese è chiuso, e perché manca l’ambulanza che avrebbe potuto portarla in un ospedale più attrezzato rischia ormai di finire sotto un titolino a una colonna a piè di pagina, tra le «brevi» di giornata. Ma è forse questa assuefazione alla tragedia della Sanità in Calabria, fanalino di coda di un Sud da cui (tranne le solite eccezioni) i malati da sempre fuggono a gambe levate verso gli ospedali di Milano, di Torino, di Bologna: verso un Nord che sembra già la Svezia, rispetto a strutture come quelle di Gioia Tauro o di Melito Porto Salvo: ecco, è questa assuefazione alla tragedia, lo scandalo di fronte al quale bisognerebbe invece tenere alto il livello dell’indignazione.
Una settimana dopo i fatti di Rosarno - la battaglia di metà gennaio fra gli autoctoni e gli immigrati africani che vivevano in condizioni disumane, piegando il groppone negli aranceti per trenta euro al giorno - gli abitanti della Piana tornarono a vivere la vita di sempre. «Un po’ di imbrogli, un po’ di raccomandazioni, sperando di non ammalarsi», sintetizzò Mimmo, un amico che ero andato a trovare a Gioia Tauro. In che senso, «sperando di non ammalarsi?», gli domandai. E lui: «Bè, lo sai com’è no? Se vai al pronto soccorso di Gioia per un prelievo di sangue funziona così. Che per analizzarlo, il campione lo devono portare in ambulanza o con un’auto di servizio all'ospedale di Polistena, a venti chilometri». E i risultati? «Li mandano per fax». Ci si potrebbe far operare, a Gioia, all’occorrenza. Perché le strutture ci sarebbero. «Ma una volta è un’infiltrazione d’acqua; un’altra è l’impianto elettrico... Per la Tac o la risonanza magnetica devi andare a Palmi o a Polistena. Intanto però stai aspettando i risultati delle analisi del sangue che arriveranno via fax... Tanto vale andare direttamente a Reggio, agli Ospedali Riuniti. Tu dici la rivolta dei neri, le arance, la ’ndrangheta. Ma qui si può morire anche per un’appendicite, prima che per un colpo di pistola. Altro che il sedicente “razzismo” di Rosarno, che è una roba che fa ridere i polli».
L’ultima vittima innocente della malasanità calabrese era nata il 13 luglio scorso all’ospedale di Rossano, provincia di Cosenza. Altre ce ne saranno, perché nonostante la spietata ma assai corretta analisi sulla Sanità in Calabria fatta recentemente da Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori, non si vede nulla all’orizzonte che faccia pensare a un radicale cambiamento di rotta. Marziale parlò di «gravissime disattenzioni da parte di medici e paramedici», di «errori figli di incompetenza, distrazione o negligenza, mancanza di formazione o scarsità di riflessione sulle pratiche e terapie da attuare». Una condanna senza appello rivolta soprattutto ai medici, accusati di somaraggine e di criminale incapacità professionale. Successe qualcosa? Nulla, neppure una querela.
Nel frattempo il grande affare che ruota intorno alla Sanità calabrese - materia che dovrebbe essere trattata come un’emergenza nazionale - procede a tutto vapore. Due milioni di assistiti, 39 ospedali pubblici, 36 dei quali in condizioni pietose; 2 miliardi e 566 milioni di euro di deficit, con 32 dirigenti nel solo ospedale di Palmi dove i posti letto disponibili sono venti. Morti sospette (sei solo nell’agosto dell’anno scorso) o errori conclamati a decine.

E scandali a gogò, come quello di Villa Anya dell’onorevole Crea o il caso di monsignor Alfredo Luberto, il prete che andava in giro in Harley Davidson, comprava quadri e gioielli per le sue «perpetue» mentre al Papa Giovanni di Serra d’Aiello, struttura sanitaria da lui gestita, i pazienti morivano di scabbia. Ma la Calabria, come sempre, fa notizia solo per un giorno.

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