E la chiamano privatizzazione. Mezza Italia protesta contro la svendita dell'acqua alle aziende e i conseguenti aumenti di tariffe e disservizi. Ma ha ragione a metà. Perché salassi e disservizi ci sono, il privato molto meno di quanto sembra.
Sul centinaio di società che gestiscono le risorse idriche dello Stivale e isole annesse, non arrivano a dieci quelle in mano ai privati. Il 60% è totalmente in mano pubblica, poi ci sono le ex municipalizzate quotate in Borsa, ma anche loro con dentro l'azionista pubblico, e infine una trentina di società miste, dove il 51% è comunque in mano ai Comuni. È proprio qui che divampano le maggiori proteste per gli aumenti e la malagestione, finita in mano alla casta della politica, che ha intinto il suo zampino nei rubinetti. Una casta idrovora, nel senso che l'acqua, più che da bere, le dà da mangiare, come testimonia il libro di inchiesta di Giuseppe Marino, cronista del Giornale, in libreria da oggi (La casta dellacqua, ed. Nuovi Mondi, 12 euro).
Per capire cosa è successo bisogna risalire all'origine della riforma: da Nord a Sud l'Italia è stata suddivisa in Ato, ambiti territoriali ottimali, che dovevano, nelle intenzioni originarie della riforma del '94, la legge Galli, coincidere con i bacini idrografici. Per capirci: tutti quelli che bevono dal lago di Como, avrebbero dovuto associarsi in un unico Ato. Invece la ripartizione è coincisa pressappoco con le province. Che, guarda caso, è anche la stessa suddivisione dei partiti. Ogni Ato si è dotato di una guida politica, una sorta di parlamentino che raccoglie tutti i sindaci del comprensorio o i loro rappresentanti, e poi ha assegnato a una società pubblica, privata o mista la gestione dell'acqua, divenendone l'ente controllore. E qui è arrivata la celebrazione della pastetta, l'apoteosi dell'inciucio. Nelle aziende miste, i politici sono entrati nei consigli d'amministrazione, divenendo così al contempo controllori e controllati. Risultato: l'acqua è diventata di destra o di sinistra a seconda del colore della maggioranza di ciascun Ato. Nella rossa Toscana, ad esempio, molti appalti li ha vinti l'Acea di Roma, controllata dal Comune capitolino per anni in mano alla sinistra.
Il primo risultato è stata la moltiplicazione delle poltrone per i politici: decine e decine di posti nei consigli d'amministrazione. E poi gli Ato: non potevano essere le province a fare i controllori? Ovviamente no, meglio creare nuovi enti i quali giurano, attraverso la loro stessa associazione, l'Anea, di costare «solo 48 milioni» l'anno. Ma a che servono? A ben poco, visto che non si ha notizia di serie contestazioni da parte loro verso le aziende che dovrebbero controllare.
Dal 1998 al 2008 le tariffe sono aumentate del 47 per cento, in media. Degli investimenti che giustificavano questi aumenti, appena la metà è stata realizzata. E in parte si tratta di investimenti finanziati con i soldi delle bollette insomma, ma con altri fondi pubblici.
E nel frattempo gli Ato, invece di controllare hanno chiuso gli entrambi gli occhi su maxi aumenti arbitrari.
A Frosinone è stato ammesso un aumento retroattivo delle tariffe. L'Ato non ha battuto ciglio, il Coviri, l'ente nazionale di monitoraggio delle risorse idriche, lo ha bocciato. In Versilia, è notizia dell'altro giorno, le bollette aumenteranno del 34 per cento. Tra i motivi addotti per giustificare la stangata, c'è il fatto che i precedenti aumenti hanno fatto calare i consumi e quindi gli introiti dell'azienda. In molti quartieri di Agrigento l'acqua viene ancora erogata una volta ogni 15 giorni, ma la bolletta è la più cara d'Italia, oltre 400 euro di media a famiglia. In Sicilia, del resto, oltre agli Ato, a «controllare» c'è pure l'Arra, l'Agenzia regionale rifiuti e acque, che vanta un record, il burocrate più pagato d'Italia: 567.000 euro l'anno, oltre 1.500 al giorno.
Quali sono le aziende con cui si è alleata la casta? C'è Veolia, gigante francese che dà da bere a mezzo mondo. Francese è pure Suez, altro colosso del settore, che però mantiene come azionista di riferimento lo Stato francese. Mentre il suo partner per la conquista dell'acqua d'Italia, l'Acea, è sempre controllato dal Comune di Roma. Alla faccia della privatizzazione.
Come se ne esce? In campo ci sono due ipotesi: «ripubblicizzare» l'acqua come vorrebbero i comitati che animano la protesta o vera privatizzazione, come ha deciso il decreto Ronchi approvato lo scorso 18 novembre.
Macché privata, lacqua è in mano alla casta
Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.