"Macché razzisti qui a Cittadella c’è solo paura"

Reportage. Viaggio nella città veneta che vuol chiudere la porta agli immigrati senza lavoro. Razzismo? "Il sindaco vuole cacciare solo gli stranieri scansafatiche. E qui siamo tutti d’accordo con lui"

"Macché razzisti qui a Cittadella c’è solo paura"

nostro inviato a Cittadella (Padova)
All'imbrunire, quando «ombre» rosse, di cabernet sauvignon, si materializzano nei calici dell'osteria «Alla Cetra», alla vineria «I Bei», e nei bar di piazza Scalco, Abdul Jabal fila lungo via Indipendenza attaccato al telefonino. Un momento fa l'aggeggio squillava a ganasce spalancate, e la suoneria restituiva le note sdolcinate di Ja Habibi, amore mio, parole e musica (mortale, la musica) di Omar Dijeb, il Ramazzotti di Casablanca. Davanti alla «Cetra», calice in mano (il quarto, o forse il quinto; ma la serata è ancora giovane) ci sono Franco Viero, Paolo Liviero, detto el Cucco, e Alfonso Pasquin. È il Cucco, che vanta una foto in cui è abbracciato a Celentano, e di musica ne capisce, che dà il la. Parte, in si bemolle si direbbe, una versione alcolica di Cuando calienta el sol; e siccome il cellulare di Abdul ha ripreso vigore, e Ja Habibi dilaga, e Jabal sta litigando con qualcuno in casablanchese stretto, il Cucco ci dà dentro a pieni polmoni, incalzando gli altri. Così il «moro» impara. «Siento tu cuerpo vibrar, cerca de mi...», prorompe dunque il terzetto, all'unisono e a pieni turiboli. Di xenofobo, e son qui da due giorni, questo è l'episodio più lacerante che ritrovo sul quadernetto degli appunti. Per dire.
Sulla piazza, accanto al duomo, dove gira in tondo il trenino del Rio Grande deserto di bambini, il vecchio giradischi del giostraio suona gli standard di Nicola Congiu, che rifà la Mina di Se telefonando. Due rumeni, forse marito e moglie, si consultano davanti a una vaporella esposta nella vetrina del negozio di elettrodomestici, mentre Zacharia Dabre, nero del Burkina Faso, se ne viene in bicicletta da porta Padova guardando a bocca spalancata le stelle di Natale e gli alberi lampadinati, i Suv e le Bmw e le Mercedes incolonnate lungo i portici, lumando (ma un po' vergognoso, dunque di straforo e da dietro la sciarpa) le signore griffate e febbrili di passo come se il Teatro Sociale avesse già aperto i battenti e non ci fosse invece da aspettare il 7 dicembre per la soirée con Katia Ricciarelli «che canterà canzoni indimenticabili accompagnata da Angelo Nigro dell'orchestra di Canale 5». «Dobrovece», buonasera, si salutano due serbi, o sono bosniaci? che si incrociano davanti alla farmacia del dottor Marenduzzo.
Sicché non deve far meraviglia, poi, vedere le facce allocchite e marmoree dei santi Prosdocimo e Donato che dalla facciata del Duomo sorvegliano (vagamente spaesati, si direbbe stasera) la babele che si agita ai loro piedi, riveriti solo da una ciurma di vecchi che alla messa delle 18.30 trascinano la loro artrite e la loro osteoporosi tra i banchi di una navata enormemente vuota.
IL CALICE DI MOHAMMED
Cerco voci, personaggi, cittadini in assetto di guerra contro i «foresti». Ma invece della madre di tutti gli xenofobi, come è stata dipinta questa cittadina perfino da giornali un tempo autorevoli, come l'Independent di Londra, e di una tana di intolleranti razzisti mi ritrovo al bar con Sergio, al secolo Abdullah Wafi, marocchino di Casablanca. Eccoli qua, lui e i suoi amici veneti, darsi gran pacche sulle spalle, e ridere e scherzare (Mohammed è già al quarto calice; il quinto giro lo paga lui) e meravigliarsi davanti al vero foresto della serata, che poi sarei io.
La sua storia eccola qua. Trentanove anni, marocchino, qui dall'89. Professione macellaio, alla «Santi» di Vedelago, 20 km da qui. Macellatore di maiali, per sovrammercato, in barba ai precetti del Profeta. Sposato con Fatima, due figli. Integrato con lode, felice felicissimo di essere capitato proprio qui a Cittadella. E ora non c'è uno, fuori e dentro il bar, che lui non conosca e da cui non sia salutato con allegria, con rispetto, con amicizia. «È stata dura all'inizio, certo che è stata dura», racconta ora col suo buon italiano. «Non mi guardavano neanche in faccia, e se mi guardavano vedevo disprezzo, diffidenza. Ho sofferto, come no. Ma ho capito che c'era un modo per farsi accettare: lavorare come loro, con serietà, con impegno». Due anni dopo il suo arrivo, Rodolfo Bonetto e sua moglie Rita, che sono di Tombolo, qui vicino, e già avevano due figlie, se lo presero in casa. Un anno dopo, quando Mohammed prese in affitto un appartamentino, i Bonetto piangevano. Sapete cos'ha da dire oggi Mohammed-Sergio ai suoi concittadini che storcono il naso davanti al crocefisso piazzato nelle aule scolastiche frequentate dai loro figli? Gli dice così: «Non ti piace? Prendi i bambini, riempi la valigia e torna in Marocco».
Le regole. È alle regole che tornano e ritornano i discorsi di Gianfranco Degetto, 65 anni, titolare del chiosco di fiori in quella che si chiamava piazza delle Biade, e che a furia di vendere rose e orchidee (i Degetto sono su piazza dal '49) si è comprato un piano bar, il «Joel», che è una piazza d'armi di 370 metri quadri. Mai fatto un giorno di ferie, il Degetto, che a 16 anni era già in Australia a tagliar canna da zucchero e a piantar tabacco. «Ogni Paese ha le sue regole. Ma parlare di intolleranza, di razzismo: ma quando mai - si ribella il vecchio emigrante, accendendosi l'ennesima sigaretta della giornata -. Semplicemente, vanno posti dei paletti. Dov'è lo scandalo, in quello che ha fatto il sindaco? Qui sono tutti con lui. Compresi gli immigrati di prima generazione, se va a vedere».
I LAVORI DEGLI «OSPITI»
A guardarla da fuori, con le sue belle mura, il fossato e i palazzi affrescati che testimoniano una ricchezza antica, il lindore delle strade e la quiete che si respira da un cantone all'altro, uno pensa che Cittadella avrebbe potuto campare solo di turismo, bella com'è. Difficile immaginare il furore, l'impegno, la fatica profusa nel dopoguerra da questa gente che ha invece puntato tutte le sue carte sul lavoro, come avessero il diavolo alle calcagna, per riscattarsi da un passato fatto di polenta e penuria. Duemilacinquecento partite Iva e 25 sportelli bancari su 20mila abitanti diranno pur qualcosa, agli appassionati di cifre e di statistiche. Verniciature, metalmeccanica, produzione di marmitte e minuterie metalliche, più un pulviscolo di aziendine di artigiani. Tutto questo, lo riconosce anche il sindaco Massimo Bitonci, che è della Lega, non sarebbe stato possibile senza i 1500 immigrati venuti a fare il lavoro che agli italiani non piace più. Cinquecento i rumeni, 200 i marocchini, e a seguire moldavi, albanesi, ex jugoslavi, perfino cinesi. A far saltare il tappo è stato il sentimento di insicurezza che l'immigrazione ha portato. «Fino a vent'anni fa queste contrade erano una specie di paradiso - racconta Bitonci -. Ora vai in giro e vedi lucchetti, allarmi, impianti di videosorveglianza. Allora noi diciamo: può stare chi ha un lavoro, una casa, un reddito. A me sembra un gesto di prevenzione. La xenofobia c'entra zero, mi creda. Anche se l'integrazione è difficile. L'anno scorso, in una casa popolare dell'Ater, un marocchino ha scannato un capretto sulle scale. A lui sarà sembrato normale, ma gli altri inquilini si sono un po' incazzati. La vogliamo chiamare xenofobia?».
Giampietro Di Donè, per esempio. Cinquantun anni, titolare di un'industria di mangimi che dà lavoro a 80 persone. Andy, un ragazzo rumeno, ha le chiavi di casa del paròn. «Gli ho venduto un appartamento a prezzo politico, diciamo così, perché se la meritava, e lui, che dà una mano in parrocchia al Pozzetto, se la sta pagando col mutuo. Nel '96, un ragazzo del Burkina Faso veniva in azienda e sembrava stonato di sonno. Lo interrogo e scopro che dormiva alla stazione. Gli ho trovato una casa. Nella mia azienda ci sono tanti rumeni. Ma sono loro i primi a dire che quando la Romania è entrata in Europa è arrivata la feccia».
«Troppi cambiamenti, troppe rivoluzioni nel volgere di un troppo breve arco di tempo», sintetizza Lino Geremia, 60 anni, oggi preside della direzione didattica di Cittadella e un tempo studente che si faceva 15 chilometri in bici (e altrettanti al ritorno) per andare a scuola a Bassano.
A Santa Croce Bigolina, frazione di Cittadella, Lino Geremia (che al suo paese ha dedicato un bel libro) crebbe in una casa colonica dove tra fratelli, nonni, zii, erano in 17. Il vecchio professore l'ha vissuto tutto, il cambiamento. E non sempre gli è piaciuto. «Il denaro, il successo, l'edonismo, la società del benessere hanno fatto piazza pulita dei valori di quella civiltà contadina che erano la solidarietà, il rispetto per gli anziani, per la cultura. L'oratorio, la parrocchia sono stati sostituiti dalla discoteca e dal centro commerciale. È lì che si santifica. Questa è stata la prima ubriacatura. Poi sono arrivati i mori, le donne col velo, le badanti, e la paura del diverso ha generato il preconcetto che a sua volta rischia di generare il rifiuto, senza che siano stati costruiti a livello nazionale, se non comunitario, progetti di vera integrazione».
BENVENUTA, BRAVA GENTE
Ci vorrà tempo, per farsi passare quest'altra sbornia indotta dall'immigrazione. E se le mura di Cittadella hanno un po' contribuito a formare il carattere un po' catafratto dei suoi abitanti, pazienza. È solo un atteggiamento. Qui, se sei perbene, e lavori, sei il benvenuto. Cambierà tutto di nuovo, qui come altrove. E resterà il rimpianto del tempo che fu, quel rimpianto che affiora da I vespri, poesia che il preside Geremia (che ne è autore) mi manda in albergo. Dice così: «Co' xera festa, a dò boti, le campane tacava a sonare. Finìo de lavare i piati, se ciamava le done de casa in casa.

"Viento al Brespio, comare?” Se dava un fis'cio i omani dela contrada: tutti 'ndava in ciesa.... E poi l'era quasi un divertimento cantare i salmi in latin, anca se ogni tanto se se imbalbava e vegneva fora un gran casin. Laudate, pueri, Dominum deventava “Lavorate, pure, omeni”». E così sia.
Luciano Gulli

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