Mai come oggi ci sentiamo divisi. Il nostro essere «umani» ci fa desiderare d’esser solidali, generosi, democratici. D’amare, insomma, la vita. Nonostante il dolore, la vecchiaia, la morte, il male. La nostra cultura di lettori e spettatori ci ha però traghettato verso la sponda opposta: celebriamo dèi del nulla, pratichiamo una sessualità sterile, godiamo nell’ascoltare innumerevoli volte, rapiti e ipnotizzati, le cronache che descrivono il nostro animo malvagio. Abbiamo messo su un piedistallo maestri privi di gioia, che predicano filosofie di trasgressione, solitudine, disperazione.
Secondo Nancy Huston, la pluripremiata saggista canadese moglie del semiologo Tzvetan Todorov, tutto ciò ha radici culturali vecchie di oltre tre secoli. Radici che vanno smascherate ed estirpate. Tutto accadde durante quel grande cambiamento della nostra visione dell’universo che siamo soliti chiamare «nascita della Modernità». Nacque allora il «profondo disincanto del mondo», un buco nero che inghiotte l’umano e il divino e riduce il nostro universo a un granello di polvere che galleggia in un universo senza confini.
Huston ha raccolto la sua lista di negativisti in un saggio che condanna la nostra schizofrenia e mette a nudo le loro dottrine. Samuel Beckett, Thomas Bernhard, Milan Kundera, Michel Houellebecq, Sarah Kane, Elfriede Jelinek sono alcuni nomi sotto accusa in Contro i maestri dello sconforto (Excelsior1881, pagg. 389, euro 15,50, trad. Riccardo Bentsik, in uscita oggi). Tutti grandissimi, tra cui due Nobel, contro cui l’autrice punta il dito perché con le loro opere hanno rubato all’uomo la gioia di vivere.
Madame Huston, quando è nato questo libro?
«Quando mi sono resa conto della prevalenza del messaggio nichilista nel mondo dell’arte contemporanea. Teatro, romanzo, pittura, scultura. Mi sono chiesta perché lottiamo tutti i giorni per perseguire la felicità e diminuire la sofferenza nel mondo e poi affermiamo nell’arte enormità del tipo: la vita non ha senso, l’amore è un’illusione, le azioni umane sono un vano agitarsi destinato a distrarci dall’idea della morte... L’arte deve tornare a essere quell’attenzione alle sfumature che ci mostrano la complessità dell’animo umano, come sostiene il mio nume tutelare, Romain Gary. Quello che mi sembra schizoide è la tendenza attuale a considerare “di valore” opere - soprattutto romanzi e pièce teatrali - che sono agli antipodi di quelli che riteniamo “valori” nella vita di tutti i giorni. Predichiamo ascolto, tolleranza, condivisione. Poi andiamo a teatro e applaudiamo i distruttori del mondo».
Lei crea la categoria dei «melanomani». Chi sono?
«Gli amanti del nero. Quelli che vedono il mondo soltanto in negativo».
C’è una data di nascita di questa «melanomania»?
«Nell’Europa contemporanea ha raggiunto popolarità estrema dopo la Seconda guerra mondiale e dopo la morte dell’utopia comunista. I nichilisti sono personaggi assetati di visioni assolutiste, che cercano in Dio o nella Rivoluzione. Quando un assolutismo positivo morde la polvere, al suo posto ne piazzano uno negativo».
Lei sostiene che in una società atea e individualista diventa difficile persino difendere la virilità. Perché?
«Gli ultimi tre secoli hanno distrutto molte certezze, tra cui la superiorità evidente, dirompente, perenne, dell’uomo sulla donna. Per reazione, i nichilisti hanno cominciato a superare in misoginia i teologi cristiani più retrogradi e radicali».
Con ironia, nel saggio lei ritiene che ormai sia diventato «scandaloso» affermare che vi sia una differenza tra uomini e donne...
«A partire dalla pubblicazione de Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, libro che ritengo del tutto imperfetto, e soprattutto a seguito della terrificante tendenza culturale dei gender studies, tra gli intellettuali dire e soprattutto scrivere che le differenze tra uomini e donne non sono puri artifici culturali, da modificare e sradicare, ma realtà quotidiane, è diventato un vero e proprio tabù».
Altra pesante accusa: i «melanomani» sono «genofobi»...
«Le dimostrazioni si sprecano. I nichilisti spesso vivono per dimenticare un’infanzia disgraziata, umiliante, priva d’amore - ed è stupefacente verificare che la totalità dei pensatori che ho preso a campione per il saggio siano andati in pensione molto giovani. Vivono tutti lontano dai bambini. Dimenticano i loro debiti verso il prossimo, se non per quel che concerne il linguaggio. Ritengono le donne responsabili della loro “caduta” e il corpo femminile ispira loro disgusto e risentimento. Fra le donne, poi, come la Jelinek, si tratta sempre di intellettuali masochiste o con tendenze suicide».
Lei sostiene che il primo passo dell’uomo verso il nichilismo è stata la sottrazione del senso del divino dal mondo.
«L’uomo non può pensarsi nato “per errore”. Il senso della vita va cercato insieme agli altri, giorno per giorno, sia da chi crede, sia da chi non crede. Ma questo pensiero è insopportabile per i nichilisti: il loro orgoglio smisurato li porta a pensare che la solitudine sia la soluzione. Ma la solitudine spiega soltanto il senso di una vita solitaria».
Nel libro presenta alcuni esempi di donne coraggiose - Colette, Agnes Varda, Liv Ullmann, Bibi Anderson - che grazie all’amore per la vita hanno saputo affrontare dolore, vecchiaia, malattia senza alcun artificio contemporaneo, né scientifico, né estetico.
«La vecchiaia è tragica solo se la consideriamo tale. La società oggi l’ha privata di ogni valore, quindi ne abbiamo paura, la rigettiamo, la emarginiamo. Ma è questa solitudine la pena più terribile per i vecchi, non la morte. La morte non ha nulla di tragico.
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