La magistratura ammalata di eccessi corporativi

Francesco Damato

Naturalmente Nicola Marvulli rimarrà saldamente al suo posto, per quanti sforzi abbia già fatto e vorrà fare ancora quel guastafeste incallito di Francesco Cossiga per ottenerne la rimozione. Avere accusato il presidente del Consiglio di «delirio da persecuzione», come ha fatto appunto Marvulli per contestare le critiche mosse da Silvio Berlusconi ad alcune iniziative giudiziarie, peraltro non riguardanti questa volta la sua persona, procurerà al primo presidente della Corte di Cassazione non guai ma onori. Vedo piuttosto in pericolo la statua del povero Cavour davanti alla sede di quella che viene chiamata «la suprema Corte». Con i tempi che corrono, e con quelli che dovessero seguire in caso di vittoria elettorale del cartello giustizialista di Romano Prodi, è immaginabile una statua di Marvulli, senza neppure attenderne il trapasso.
Basta e avanza, del resto, il trapasso della Giustizia segnato, più ancora che da certi processi clamorosi che si guadagnano le prime pagine dei giornali, da tante vicende cosiddette minori, confinate spesso in qualche spazio sperduto delle cronache. Abbiamo appena appreso, per esempio, di quel siciliano di 35 anni, Giampaolo Ragusa, che ne ha trascorsi ingiustamente ben quindici in galera. Vi era finito per essere stato accusato di tre omicidi di mafia. La magistratura inquirente e giudicante lo aveva «inchiodato» fidandosi dei soliti pentiti. I quali sono stati poi smentiti non da magistrati solerti nella ricerca delle prove favorevoli anche all’imputato, come vorrebbe la legge, ma da altri pentiti che - bontà loro - si sono decisi a raccontare la verità e ad assumersi anche la responsabilità dei delitti a lui attribuiti.
Su questa giustizia, rigorosamente minuscola, amministrata più dai pentiti che dai magistrati, spesso renitenti ai processi di revisione chiesti dalla difesa con prove faticosamente raccolte da sola, magari tra i fascicoli di altri procedimenti giudiziari, Marvulli dovrebbe sentire il buon gusto di dire qualcosa.
Se quello di Berlusconi, dei cui processi, perquisizioni aziendali, rogatorie e quant’altro si è perso ormai il conto, è apparso al primo presidente della Corte di Cassazione un «delirio di persecuzione», come deve definirsi l’atteggiamento di quelle toghe impermeabili a qualsiasi spirito di autocritica, abituate ad avvolgersi come tanti insaccati nella carta costituzionale, ritenendosi da essa autorizzate a tutto ?
Anche in occasione dell’attacco sferrato da Marvulli al presidente del Consiglio si è tornati ad indicare nel 1992 e nella vicenda di Tangentopoli l’origine del duro conflitto in corso tra magistrati e politici. Ma questo non è vero. Il conflitto nacque nel 1986, quando la politica osò porsi il problema, di fronte alle nequizie della vicenda giudiziaria del povero Enzo Tortora, di obbligare anche i magistrati a rispondere civilmente dei danni procurati dai loro errori, come già accadeva ed accade a medici, ingegneri, architetti, giornalisti e via dicendo. Ne nacque un referendum al quale i magistrati reagirono gridando vendetta contro chi avesse osato sostenerlo.
Quel referendum fu vinto l’anno dopo dai promotori radicali e socialisti.

Ma i magistrati riuscirono a vanificarne il risultato strappando purtroppo al governo e al Parlamento una legge di «disciplina» della materia così perfidamente concepita da essere risultata sinora inapplicabile. Fu delirio di corporazione, e d’onnipotenza. A pagarne le spese sono i cittadini e la Giustizia, quella con la maiuscola.

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