Pier Francesco Borgia
«Noi uomini comuni - racconta Daniele Costantini, autore del film Fatti della Banda della Magliana, da oggi nelle sale - veniamo al mondo un certo giorno, facciamo la nostra strada, e alla fine del percorso, un altro certo giorno, muoriamo. I gangster, invece, nascono e muoiono più volte, prima di lasciare questo mondo per sempre. Vivono a strettissimo contatto con la morte, ogni giorno: la frequentano, la guardano in faccia. In questo senso li trovo esemplari».
Da qui muove quindi linteresse di Costantini per la Banda della Magliana, unorganizzazione criminale che nellarco di tre lustri (1975-1991) ha segnato pesantemente la vita della nostra città (e non solo della nostra).
Da qualche tempo largomento «Banda della Magliana» è tornato prepotentemente dattualità. Complice un rinnovato interesse per la storia degli ultimi trentanni e soprattutto di quel delicato momento storico che ancor oggi va sotto il nome di «Anni di piombo». La passione di Costantini per le vite dei gangster, però, ha poco a che fare con i manuali di storia. Al regista, che si è formato accanto a nomi quali Ettore Scola e Citto Maselli, interessano più le persone e la loro personale «epica». È dal 92 che il regista studia i verbali dei processi che hanno visto alla sbarra i componenti della temibile «Banda».
Da quella lettura è nato un testo teatrale (Chiacchiere e sangue, andato in scena al Teatro Colosseo nel 2003). Lo spirito di quello spettacolo è ancora vivo in questo nuovo film che mantiene limpianto drammaturgico del racconto-confessione dei singoli membri della Banda. Da segnalare linterpretazione di Francesco Pannofino, il vero protagonista del film che veste i panni del cosiddetto pentito dellorganizzazione. Quel Maurizio Abbatino, divenuto pedina fondamentale per ricostruire alcuni retroscena degli anni Ottanta.
Il film si apre e si chiude con il suo monologo-confessione davanti a un giudice muto (Leo Gullotta), che bene rappresenta limpotenza della giustizia di fronte a tanta forza e prepotenza nel gestire e «irrobustire» il crimine nella Capitale.
Un crimine «apolitico», si badi bene. Che poco ha a che fare col plumbeo clima degli anni più bui della nostra storia recente. Al contrario i criminali (morti e non) confessano prima di tutti la loro irresistibile vitalità. E bene ha fatto il regista Costantini ha scegliere tra i comprimari della pellicola alcuni «ospiti» di Rebibbia. Chi meglio di loro, infatti, può trasmettere il vitalismo corrivo che ha tradito per primi proprio i membri della banda, drogati di cocaina e di guadagni facili.
Se il film ha un pregio è proprio quello di dare voce a un «milieu» che raramente ottiene lattenzione dei media.
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