La mamma di Yara, un dolore che non urla

Una voce calda e calma, verrebbe quasi voglia di dire serena. Nessun singhiozzo, nessuna concessione patetica alla cosiddetta tv del dolore. Dopo due settimane della peggiore mutilazione che possa toccare ad una madre, la mamma di Yara parla in pubblico. È solo uno scambio di battute via telefono con il «Tg2» e via citofono con il «Tg3», praticamente una dose omeopatica per i tanti giornalisti in crisi di astinenza, che pagherebbero a peso d’oro pur di averla seduta in studio, al centro della scena. La signora Maura accetta (...)
(...) il contatto con il mondo esterno sostanzialmente per due ragioni. La prima: ribadire che la sua famiglia non ha nemici. La seconda: ringraziare gli italiani che hanno saputo raggiungere il suo cuore, senza mai bussare alla porta. Un grazie particolare ai detenuti che le hanno scritto la lettera più toccante, a dimostrazione che l’umanità e l’amicizia possono tranquillamente varcare le sbarre di qualsiasi cella e gli sbarramenti di qualsiasi villetta.
Finora conosciuta per sentito dire, adesso l’abbiamo sentita dire. Anche parlando nella breve intervista, la signora conferma d’essere di una certa pasta, molto particolare e se vogliamo fuori dal coro, in quest’Italia post-moderna che ormai soffre, gioisce, piange, ride, litiga, amoreggia, divorzia, sogna, vince, perde, si scarramba e si toglie i veli per la televisione, cioè sostanzialmente vive dentro la televisione. Casualmente, la mamma di Yara concede due parole via cavo, senza farsi cementare al centro della scena, senza occupare edizioni speciali, senza nemmeno mostrare il volto. Cos’è, dobbiamo pensare che sia una santa?
È evidente: abbiamo diversi modi di sopportare la disgrazia e di reagire al dolore. Ci sono individui che non versano una lacrima e non pronunciano una parola per intere giornate, dopo un lutto. Ma c’è anche chi ha bisogno di gridare, di gesticolare, di maledire. In certe zone ci siamo inventati pure le prefiche a pagamento, per dare maggiore resa ai funerali. Ma la questione, di questi tempi, non è il modo di sentire e di porsi. Al centro delle riflessioni è questo nuovo dogma sociale, accettato da quasi tutti, secondo il quale esiste solo ciò e chi sta in televisione. Persino il dolore. Un dolore che non abbia il suo quarto d’ora di diretta sembra un dolore più debole, più lieve, più lontano. È un dolore minorato. Ma è poi così vero? Davvero non è più pensabile di disattendere questo dogma?
Le cronache più brutte di questi anni sembrano indurre alle più amare conclusioni. Alla più crepuscolare rassegnazione. Famiglie perdono figli sotto case crollate, figlie falciate da ubriachi, madri e padri spazzati via dalle alluvioni, ma prima ancora di correre all’obitorio obbediscono alla regola dell’intervista televisiva. Come si fa il necrologio e si prenota la messa funebre, così si va in televisione. Questo il nuovo costume e il nuovo rituale. Impensabile trasgredire. Però attenzione, teniamoci almeno un residuo spazio di dissenso: sia chiaro, è così, ma non è che debba essere così per forza.
Esempi che rompono il nuovo schema ce ne sono. Prima della mamma di Yara, ricordo altre due donne che hanno stupito tutti per la compostezza e la riservatezza nelle proprie sventure, sopportate e gestite con silenziosa dignità. Ricordo la signora Marina Orlandi, una moglie innamorata che una sera del 2002, era pure la Festa del papà, si vide assassinare sottocasa il marito Marco Biagi. Ricordo, tre anni dopo, la compostezza di Clementina Cantoni, volontaria rapita e segregata per 24 giorni in Afghanistan: al suo ritorno, due parole per dire grazie e una promessa, non cercatemi più perché ho solo voglia di riprendermi la mia esistenza. Promessa mantenuta. E quanta differenza rispetto allo sguaiato clamore e al protagonismo esibizionista esplosi nel caso delle due Simone, le rapite in Irak.
Dobbiamo riconoscerlo: siamo talmente abituati in un certo modo, che queste tre donne sembrano creature strane, inspiegabili, quasi extraterrestri. Ma la mamma di Yara, la moglie di Biagi, la volontaria Clementina non sono né tipi eccentrici e stravaganti, né tanto meno sante: hanno fatto una cosa normale.
Sì, la mamma di Yara si sta comportando in modo normale. Una madre che non sa più dove sia la sua creatura, che teme gliel’abbiano uccisa, normalmente ha solo voglia di starsene chiusa nella propria angoscia, riservando mille attenzioni in più ai bambini rimasti con lei. Luci e microfoni, forse, avranno il giusto accesso solo quando l’incubo sarà finito, se il Cielo lo vorrà.
Non è così inspiegabile, questo atteggiamento. Per quanto la televisione sia diventata ormai una di famiglia, con la sua presenza costante, così spesso anche utile e affettuosa, non sta scritto da nessuna parte che sia il centro del mondo. Nessuno impone di obbedirle come a una legge suprema. Quando in casa entra la tragedia di un terremoto, di un delitto, di un incidente stradale, non fa parte del rito funebre parlare ai microfoni. Non è peccato dire no.

Chiudere fuori il mondo è un diritto inviolabile, nei momenti peggiori: il problema è che per troppi di noi sembra diventato sconveniente e fuorilegge. Come un sacrilegio. Ma bisogna che la gente si tranquillizzi: il silenzio non è un sacrilegio. Ci sono silenzi che esprimono molte più cose di tante confessioni a cuore aperto, su questa rete in esclusiva.

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