Mancassola, quando realtà e finzione fanno crash

Il numero degli incidenti è sempre altissimo e la cosiddetta «ecatombe stradale» rappresenta una delle eccezioni più vistose all’ossessione occidentale per la sicurezza. Perché ciò accade? Come mai, per esempio, il codice della strada non ha la stessa potenza coercitiva degli altri codici, sebbene ne uccida più la ruota che la spada? Per quale ragione i divieti sono immancabilmente ignorati e le multe, che quasi mai raggiungono i pirati, risibili?
Circa trent’anni fa il filosofo Jean Baudrillard, interpretando a modo suo i dati di una ricerca, azzardò una risposta spiazzante: il rischio di morire sulle strade è la «tassa» che pagano i cittadini per entrare a far parte del consesso sociale; ipotesi eccentrica alla quale vogliamo affiancarne una seconda: se non riusciamo a eliminare gli incidenti dal nostro mondo iperprotettivo è perché essi contengono un ammonimento: ci ricordano che non siamo né saremo mai solo flussi di elettroni o dispositivi cibernetici. Come tanti Shylock in salsa cartesiana, siamo in primo luogo dei meccanismi: se cadiamo ci rompiamo, se ci feriamo ci afflosciamo perdendo liquidi da un tubo. Dipendiamo da teoremi di fisica terra-terra formulati da Archimede o tutt’al più da Galileo, non da Einstein: di tanto in tanto, per colmo di banalità, qualcuno si ammazza per aver ignorato la legge di conservazione del moto.
In Il ventisettesimo anno. Due racconti sul sopravvivere (minimumfax, pagg. 74, euro 8), Marco Mancassola si mette all’ascolto di ciò che di meglio il tema dell’incidente abbia prodotto negli ultimi anni, dal cinema di Losey o di Lynch alla narrativa di Ballard. E Lynch è presente non solo con l’esplosione di effetti personali dopo il crash di Cuore selvaggio, ma anche con la difficoltà, humeana e proustiana, di distinguere tra ricordo e immaginazione di Mulholland Drive. Il primo racconto si apre appunto con la scena di un incidente: «Avrei voluto sbloccare la portiera, uscire e assicurare che stavo bene, qualche graffio al massimo, davvero, sarei andato a casa e mi sarei medicato. Inghiottivo sangue e frammenti di denti». L’intero prologo è un pezzo di bravura grazie al quale l’autore introduce a uno stile dominato sia dagli stati febbricitanti della coscienza in cui sonno, malattia e ricordo si impastano, sia da ciò che si potrebbe definire l’elusività o l’infinita declinabilità del lugubre. I personaggi di Mancassola sono oppressi dal pensiero della morte, ma da una morte che si fascia, si stempera nei suoi stessi cascami.
Questo deliberato impoverimento del tema diventa quasi isterico nel secondo racconto, come a segnalare il crescere di un’insofferenza.

Entriamo infatti in un pub per assistere al monologo di un giovane operaio del cimitero: il suo resoconto, la storia di una donna che decide di assistere al trasferimento dei resti del figlio morto vent’anni prima, sembra il frutto delle fantasie di un mitomane; ma ciò che colpisce è la reazione dell’amico, la smozzicata balordaggine con cui quest’ultimo si difende dal truce flusso di parole già annacquate dalla birra e dal frastuono del locale. Non sappiamo cosa succederà quando Mancassola si metterà alla prova su temi meno scioccanti: gli auguriamo solo di conservare, in atmosfere meno estreme, la stessa sbadata ed esatta incisività.

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