«Per lArgentina! Per le Malvine!». Nello spogliatoio di Città del Messico, ai Mondiali 1986, questurlo è l'apice di Maradona. La mano de Dios di Marco Risi. L'adolescente calciatore che, nel 1976 del golpe di Videla, ha sedici anni e non fa politica, fa l'amore (proprio mentre passa - in una scena - la tipica Ford Falcon della polizia segreta), dieci anni dopo guida la riscossa calcistica argentina sullInghilterra per la sconfitta militare del 1982 nell'arcipelago australe. E anche il titolo del film evoca il celebre goal di mano («La mano di Dio», dirà proprio Maradona). Così chi aveva dominato i mari con l'astuzia, con l'astuzia veniva umiliato sul mare d'erba dello stadio Azteca. Un regista italiano alle prese con una coproduzione spagnola e immesso in un contesto argentino: come se cava? Bene. Cara al padre Dino fino dal Gaucho (1964) e a lui da Tre mogli (2001), l'Argentina di Marco Risi riesce meglio in Maradona, dove viene evocata con allusioni e col non detto, che quando viene scrutata da altri registi italiani, più problematici come Marco Bechis (Garage Olimpo).
Erudito dal padre Dino, consapevole dal 1950 degli Eroi della domenica (da lui scritto) che «film sul calcio fa fiasco», Risi opta per il film sulla droga. Ma, per fortuna sua e dello spettatore, Maradona non è solo un drogato: è un eroe nazionale, che lArgentina ama, come i Peròn e il Che (si veda Evita di Alan Parker e Comandante di Oliver Stone).
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