La marcia a sinistra degli ex Psi

Arturo Gismondi

Nella transumanza in atto in vista delle elezioni di aprile si segnala un movimento di esponenti ex-socialisti, gruppi o singoli, verso l'Unione. C'è chi ne parla come di una fase nuova della «questione socialista», di una soluzione della diaspora che ha segnato e accompagnato la fine del partito di Craxi nella prima metà degli anni '90.
Per quel che so di quelle vicende, esiterei a parlare di «questione socialista», parlerei piuttosto della storia erratica di un ceto politico che in vista delle elezioni politiche ritiene, comunque sostiene, che nell'attuale sinistra si siano create le condizioni per ricostituire una presenza socialista significativa. La strada, sarebbe la confluenza di quel che resta del Nuovo Psi con lo Sdi di Boselli, che da sempre ha trovato posto, con risultati elettorali modesti, e un peso politico pressoché nullo nelle alleanze di sinistra a fianco dei Ds.
In particolare, il ritorno alle vecchie alleanze della diaspora degli ex socialisti Psi viene giustificato con due argomenti: è passato del tempo, si sono spente le passioni, non si può restare fermi a un passato, la distruzione giudiziaria del Psi è ormai lontana; e, infine il posto naturale dei socialisti è a sinistra, deve tornare ad esserlo.
Si tratta di due argomenti piuttosto deboli. Sul primo punto, è vero, il tempo è passato per tutti. Ma nei Ds, che restano i beneficiari di questi movimenti erratici, il tempo non ha cambiato gran che: il gruppo dirigente è, nella sua totalità, quello che negli anni '90 favorì la fine giudiziaria del Psi e di Craxi. Ricordarlo non significa coltivare rancori, significa guardare alla realtà di oggi. Non risulta, si veda l'atteggiamento di quel partito sulle questioni della Giustizia, che esso abbia alcuna intenzione, o capacità, di recuperare lo spirito del socialismo democratico europeo, il suo rispetto per ogni diversa posizione, per la quale l' avversario, e le sue idee, vanno combattuti con armi esclusivamente politiche.
Per il secondo punto, l'alleanza del tutto dispari con i Ds tende a confermare un vecchio principio della Terza Internazionale: ove sono i partiti comunisti, ivi è la sinistra. Un principio contestato dalla storia europea del '900, che ha visto due esperienze inconciliabili, quella della socialdemocrazia europea e quella del comunismo. Le sole eccezioni sono state il Psi frontista di Nenni, e i partiti socialisti sopravvissuti nell'Europa sovietica fino al 1989.
Forse non è giusto comparare le cose piccole alle grandi, la storia di un ceto politico che ha perduto il suo popolo con vicende e tragedie ben più importanti. E però, e però. L'Italia resta, in Occidente e al cospetto di molti Paesi dell'Est europeo, l'unico nel quale sopravvivono come forza di governo più partiti comunisti, e un partito post-comunista che ha salvato, con una intera classe dirigente, un potere intatto nei sindacati, nelle coop, nelle organizzazioni di massa e nei governi locali, per esempio in quelle aree del Paese che non hanno conosciuto nel cinquantennio repubblicano il fenomeno dell'alternanza.
Per Occhetto, poi, le vicende dell'Unipol aggiungono al potere dei Ds un tocco di «natura proprietaria». C'è da dubitare, oggi, che la «questione socialista» sopravviva. E se sopravvive, essa è affidata alla volontà, e alla capacità effettiva dei Ds di rappresentare in Italia gli eredi del socialismo democratico europeo. Si tratta di un processo che i più longanimi definiscono incompiuto, che sconta l'ostilità e il timore di tanta parte del gruppo dirigente, della cultura di radice comunista, e di tanta parte della base, orientata in buona misura verso un conservatorismo dogmatico che non accoglie, nel suo seno, germi di novità.
Non è un caso che Boselli e Bobo Craxi siano indotti ad aspettare, ammesso che lo facciano, la Bad Godesberg dei post comunisti ancora dopo mezzo secolo. Essi stessi, non sono diversi. La sinistra discute del risultato delle elezioni tedesche, e dei possibili esiti. Nessuno si sofferma sul fatto che Schröder ha negato fin dal primo momento ogni accordo con i social-comunisti di Lafontaine e di Gysi. La ragione è che l'alleanza con il socialismo di sinistra e il comunismo della Ddr riporterebbe la Germania, che ha bisogno di rinnovarsi, indietro al disfacimento della Repubblica di Weimar. Da noi, la sinistra accetta come condizione di vittoria i no global inseguiti da Bertinotti, e il filo-castrismo di Diliberto, il pacifismo di chi vede nel terrorismo iracheno non già il nuovo nazismo, ma la Resistenza europea di 60 anni fa. a.

gismondi@tin.it

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