Marco Müller: per due film ho pianto come una fontana

Intervista con il direttore della Mostra a una settimana dall’apertura

Marco Müller: per due film ho pianto come una fontana

Michele Anselmi

da Roma

Ultima settimana di fuoco, prima dell’apertura del 31 agosto per il direttore della Mostra, Marco Müller. Il quale ha buoni motivi per festeggiare. Gira voce che il film-sorpresa sia The New World di Terrence Malick, con Colin Farrell. Uno dei più attesi della stagione, considerato il nome del regista. Prendendo spunto dalla leggendaria storia d'amore tra la principessa Pocahontas e il soldato inglese John Smith, il film rievoca l’epico incontro-scontro tra indiani d'America e coloni europei, in quel cruciale 1609.
Direttore, conferma?
«Lo scoprirete il 2 mattina. Non faccio nomi. Il film prescelto è una sorta di portabandiera del cinema che vogliamo difendere».
La prendo per una conferma. Venuti meno i nuovi film di Kitano e Benigni, The New World è la ciliegina che mancava.
«Niente da aggiungere».
Com’è questa storia della Mostra «blindata»? Il presidente della Biennale, Croff, sdrammatizza. E lei?
«Ma anche Cannes è blindata, allora. Non ci saranno battaglioni di celerini in stato di guerra, né tiratori scelti. Ci saranno, invece, metal detector e controlli civilissimi».
Si aspettava tutte queste critiche? Kezich le rimprovera scarso senso dell’istituzione per via di W la Foca, Tornabuoni ironizza perché i film della Mostra escono subito nelle sale, l’Unità parla di ritorno all'ordine...
«Mi preoccuperei se avessi qualcosa da nascondere o da rimproverarmi. Scarso senso dell’istituzione? Temo solo la soffocante convenzione. L’attrattiva artistica da sola non basta, dobbiamo saper rivelare anche valori di mercato dentro quegli stessi film. Inoltre, è del tutto priva di fondamento la voce secondo la quale avremmo fatto uno shopping tra i listini dei distributori italiani. Molti film saranno pronti giusto per Venezia. Non è vero che escono tutti il giorno dopo».
Lei passa per un entusiasta. Ogni Mostra che fa è la migliore.
«Guardi, mai come quest’anno mi sono commosso fino alle lacrime. Quando ho visto Brokeback Mountain di Ang Lee e Musikanten di Franco Battiato ho pianto come una fontana».
Addirittura?
«Altri, invece, mi hanno entusiasmato intellettualmente. Elizabethtown di Cameron Crowe, ad esempio, incarna un’idea di cinema perfetto, dove si piange e si ride. Cito il mio maestro Serge Daney: esiste davvero un altro cinema all'infuori di quello americano?».
Molte pressioni?
«Arrivano da ogni parte. Non solo dalla politica o dal mercato. Ci sono anche quelli che ti implorano di salvare il loro film, altrimenti è condannato a morte».
Casi politici in vista?
«Non credo. Sempre che qualcuno non rimproveri a George Clooney una visione partigiana per il suo Goodnight and good luck, sugli anni bui del maccartismo. Non c’è dubbio, il senatore McCarthy viene preso a randellate da Clooney; il quale, però, è poco tenero anche verso gli intellettuali radical, visti nel loro velleitarismo. Il vero eroe è il giornalismo liberal».
Sul fronte italiano, la selezione non sarà un po’ troppo rassicurante?
«E perché mai? Una coincidenza di tempi ci ha fatto recuperare il più avatiano dei film di Avati. Tutti siamo rimasti abbagliati dalla prova di Katia Ricciarelli in La seconda notte di nozze. Ha la forza di certi schizzi felliniani di provincia, ma senza l'elemento grottesco. Quanto a Roberto Faenza e Cristina Comencini, i loro film percorrono la stessa strada di alcuni cineasti americani artistico-commerciali. I giorni dell’abbandono è costruito sulla performance toccante di Margherita Buy, La bestia nel cuore su un meccanismo a orologeria».
Perché a Venezia sono fischiati solo gli italiani?
«Perché scontiamo i riti di uno sport nazionale che va avanti da tre decenni. Il tiro al piccione si fa solo sui nostri film. Magari certe ridondanze di dialogo fanno meno effetto quando le leggi nei sottotitoli».
Non riaprirò la querelle su Dante Ferretti presidente di giuria. Le chiedo solo: scelto il giurato mancante?
«Sì. Puntavamo sull’attrice americana Natalie Portman. Non era libera. Ci ha suggerito lei di chiamare il regista israeliano Amos Gitai».
Sai che novità. Non c’è Venezia o Cannes senza Gitai. Quest'anno non aveva un film pronto, quindi...
«Cattiverie. Quanto a Ferretti, è una scelta mia, nessuno mi ha imposto niente, né il ministro né il presidente della Biennale».
Teme il Festival di Roma voluto da Veltroni per il 2006?
«No. Anzi, gli auguro ogni successo. Ma forse avrebbe più senso spendere quella considerevole cifra, 8 milioni di euro, per reinventare Massenzio nello spirito dell’Estate romana. Con quei soldi si può fare una bellissima rassegna di due mesi e mezzo».
Il suo contratto dura quattro anni. Se il centrosinistra vince le elezioni, potrebbero diventare tre.
«Lo spoil-system non turba i miei sonni. Non sono stato scelto per motivi di appartenenza. Un professionista può tornare sempre a fare il proprio lavoro, nel mio caso il produttore. I problemi veri sono altri: carenze strutturali, limiti finanziari, l’impossibilità di far decollare un mercato. Lo sa che la Sala Grande ha tappezzeria e moquette vecchie di vent’anni?».
Lei ha diretto per nove anni il Festival di Locarno. Perché Irene Bignardi ce l’ha tanto con lei?
«Forse ha preso le sue paure per realtà. Non sono Moritz de Hadeln, non faccio dichiarazioni sui miei successori».
Gran furbata un Leone alla carriera al giapponese Miyazaki e uno all'italiana Sandrelli.
«Le proposte le feci insieme. Poi ci sono voluti tre mesi per perfezionarle. Non tutti credevano all’impatto continentale della Sandrelli. Io sì».


Un’ultima cosa: saprà che il polacco e cattolico Zanussi è il cineasta di riferimento del ministro Buttiglione.
«E che significa? Persona non grata riporta Zanussi alle vette espressive degli anni Settanta. Una satira politica finissima, con i più bravi attori dell’Europa orientale».

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