da Roma
Se la musica ha un potere evocativo - e non c'è dubbio che l'abbia - venerdì sera il pubblico del Festival dei due Mondi ha vissuto una sorta di esperienza medianico-musicale. Perché quella nel teatro di Nuovo di Spoleto non è stata solo l'inaugurazione dell'edizione del cinquantenario; è stata soprattutto la prima orfana di colui che era l'anima del festival: il leggendario fondatore Gian Carlo Menotti, scomparso quattro mesi fa. E poiché in scena si dava la Maria Golovin dello stesso Menotti, non è difficile immaginare quanta emozione, e quale commosso successo, abbiano coronato questo ritorno a casa del maestro. Certo: Maria Golovin non è in assoluto la partitura migliore di Menotti: lui stesso la considerava la sua «opera sfortunata» perché a un'abituale trama ricca d'effetti melodrammatici sostituisce una riflessione sull'amore e la gelosia dal tono più raccolto, sostanzialmente privo d'azione e, per conseguenza, una musica povera di slanci melodici. Ma proprio in questo risiede il suo fascino.
La storia è quella del cieco Donato, che in un paese immaginario alla fine di una guerra non precisata, s'innamora di una donna che non può avere, Maria, perché prigioniero della propria cecità come lei lo è di un marito lontano ma incombente, in quanto prigioniero di guerra. Il libretto (dello stesso Menotti) è un lungo, ininterrotto duetto d'amore e gelosia, ma così ricco di sfumature psicologiche, e sul quale la musica aderisce come un guanto con tali nuances melodiche, da avviluppare lentamente il pubblico in una fascinosa spira emotiva.
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