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Marinetti, futurista fino alla fine (anche con il duce)

Giordano Bruno Guerri racconta le "vite strabilianti" di chi animò l'avanguardia

Marinetti, futurista fino alla fine (anche con il duce)

di Giordano Bruno Guerri

L'11 maggio 1944 Benedetta Marinetti andò dal duce: Effetì non intende riparare in Svizzera varcando la frontiera di nascosto. Vuole un permesso ufficiale, che la Svizzera non concede. Mussolini conosceva lo stato di salute di Marinetti, lo aveva informato lui stesso con una lettera del 18 ottobre 1943, che gli aveva scritto per giustificarsi di non essere fra i combattenti. Il suo dolore più grande, precisava, era "vedere assassinare l'Italia te e il Fascismo": un ordine non casuale, al quale aggiunge "e anche la mia tenace volontà di poesia futurista".

Il permesso non arrivò e Effetì incontrò Benito il 25 luglio, il 23 agosto e il 21 settembre 1944. Cosa si dissero? Lo possiamo solo immaginare, a parte una scarna testimonianza del direttore del Corriere della Sera Ermanno Amicucci.

Dal loro primo incontro sono passati trent'anni, e se Marinetti ha avuto una discesa, quello del duce è un crollo, oltretutto il 25 luglio è l'anniversario della caduta. La responsabilità storica lo schiaccia, è impotente di fronte agli eventi, ombra dell'uomo che era stato. L'Italia è divisa. La sua Italia. Quel ridicolo re traditore gliela contende dopo avere abbandonato gli italiani nelle mani dei tedeschi. Sa che Hitler lo ritiene un debole, eppure è tutta colpa sua se la guerra è perduta, il Führer doveva ascoltarlo. Roma. Rivedrà Roma? Le folle sotto il suo balcone. Dalla finestra vede il lago. Non ha mai amato i laghi, né fiume né mare, gli fanno l'effetto di un tradimento, e proprio qui si svolge la parte più infelice della sua vita, lo sfacelo di tutto ciò che ha costruito. Pensa a quelli che l'hanno seguito, pronti a morire per lui. Intanto il vecchio uomo che ha davanti gli propone rinascite impossibili. Gli sente ripetere che il vero, grande errore del fascismo è stato abdicare ai principi repubblicani e socialisteggianti dell'epoca sansepolcrista, che bisogna ripristinare la fede rivoluzionaria al servizio degli interessi popolari e nazionali. Ribatte che la Repubblica ha già imboccato quella strada, con la socializzazione delle imprese. A Marinetti non basta, sogna un ritorno alle origini, proprio ora che tutto sta per finire.

Sono due sconfitti. Lo sguardo, un tempo intenso e bruciante, si è spento in entrambi. L'incedere impettito pare ora piegato da fardelli insopportabili. La guerra civile scandisce ore interminabili. I due uomini, passati vittoriosi attraverso le tempeste, si guardano fingendo di credere ancora a qualcosa. La recita riesce male, dovrebbero convincersi della verità di ciò che dicono: ingannare l'altro è forse possibile, mentire a se stessi no. L'amor proprio, la stanchezza, la sensazione di vuoto, l'inconfessato desiderio di ritirarsi consiglierebbero di lasciare tutto per godere chissà dove i pochi affetti sinceri rimasti. Eppure il ruolo a ciascuno il suo, infinitamente diverso l'uno dall'altro impone che rimangano sulla scena, sotto gli occhi del mondo. L'incontro di due capi si è trasformato in un mesto abboccamento di fantasmi.

Nei loro occhi abbassati e nelle movenze appassite si compie il bilancio finale dell'esistenza. Victor Hugo scriveva che "nei pressi della tomba il pensiero si amplia", una sentenza che Mussolini e Marinetti incarnano con cupezza. Il redde rationem a cui sono inchiodati li costringe a soppesare gli errori commessi, le ambiguità da cui non sono usciti, i compromessi non evitati. È un esercizio che il duce, dalla notte del Gran consiglio, scandisce con cadenze da supplizio cinese.

Il creatore del futurismo sembra incoraggiarlo dicendogli che non tutto è perduto, che la rivoluzione attende ancora. L'ingenua professione di ottimismo è un'estrema concessione alla sua immagine: un futurista non può lasciarsi andare al realismo, specie quando sfuma nella catastrofe. Però ogni accenno al futuro diventa patetico in bocca a quei sopravvissuti. Avevano rivoluzionato la politica e l'arte con intuizioni fulminee di vitalità, ora si trovano a fare calcoli, a misurare un destino che non li vede più artefici, sono spettatori inerti. Quando si osservano, si specchiano, anche se Mussolini, saturo di emozioni e dolori, ha il viso gonfio e Marinetti, prosciugato dalla malattia e dallo scoramento, è scavato e dimagrito.

***

Nel luglio 1944 il fronte è sempre più vicino e i Marinetti si trasferiscono a Salò, ospiti in una villa dell'avvocato Emilio Piccoli, a un passo dal lago, al 112 di una via dal nome romantico: Cure del Lino. Così è a pochi chilometri da Mussolini, proprio come gli aveva suggerito il duce. Per due mesi si incontrano spesso, in colloqui di cui ignoriamo il contenuto. Il 19 settembre un gruppo di sconosciuti probabilmente partigiani tenta di entrare nella villa. La mattina dopo Effetì e Beny lasciano Salò con una scorta armata e si trasferiscono a Como, più vicino alla Svizzera. Con loro c'è solo Luce, la più piccola, dodici anni. Ala e Vittoria sedici e diciassette anni sono state messe al sicuro dai bombardamenti, in un paesino. Il viaggio per Como fu lungo, gli aerei angloamericani mitragliavano le strade. Da lì, pochi giorni dopo, si trasferirono a Cadenabbia, più a nord. Passa qualche settimana, recuperano le due figlie più grandi e si spostano a Bellagio, per maggiore sicurezza. Sono cinque in due stanze all'albergo Splendido, affacciato sul lago, nello stile Liberty così poco futurista. Lì potranno rimanere finché arriverà il sospirato permesso svizzero.

Il 1° dicembre 1944, nel suo ultimo giorno, Marinetti scrive l'ultima opera, su un quaderno di Vittoria. Canta Junio Valerio Borghese e la sua X Flottiglia Mas: Quarto d'ora di poesia della X Mas, 378 parole in tutto, verrà letta alla radio da Benedetta nel trigesimo della scomparsa di Effetì. Non vi si trova alcuna esaltazione della guerra: "Io non ho nulla da insegnarvi mondo come sono di ogni quotidianismo e faro di una aeropoesia fuori tempo spazio". Il loro coraggio, spesso vittorioso, nella prima parte del conflitto ne aveva fatto un mito soprattutto fra i giovani fascisti che non volevano arruolarsi nell'esercito regolare comandato da Rodolfo Graziani, nella poliziesca Guardia repubblicana, nelle Brigate nere antipartigiane di Pavolini. Durante la Repubblica sociale italiana la X si macchiò di crimini contro civili e prigionieri, eccidi e torture. Quando i volontari scarseggiarono, ricorse all'arruolamento forzato. Tutto ciò non si sapeva, all'epoca: Borghese e i suoi uomini erano eroi, per Marinetti sono loro i futuristi del suo ultimo anno di vita, e così ancora oggi viene legato senza discernimento a uno dei simboli del neofascismo postbellico.

È Benedetta a raccontare le ultime ore di vita del marito: "Alla 1 e 20' del 2 dicembre la sua voce calma mi chiama: Scusami. Già sveglio ho voluto lavorare troppo intensamente.

Ho un po' d'affanno. La crisi precipita. Il cuore si bloccava. E fu nel cielo della notte lunare". Venti giorni dopo avrebbe compiuto sessantotto anni.

(Published by arrangement with Agenzia Santachiara © 2025 Giordano Bruno Guerri)

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