Stefano Verdino
La vicenda umana di Mario Luzi ha avuto un curioso decorso: da giovane fu la punta di diamante dei giovani ermetici, nel cuore di una società letteraria ben distinta e riconoscibile, ma anche compatibile (per quanto appartata) con la società del tempo. Da vecchio la fortuna, o meglio il miracolo, di una straordinaria longevità gli lasciò integra fino all’ultimo giorno della vita la sua acuminata intelligenza e lo stigma di una scrittura di ampio respiro, mai amministrativa. E con il venir meno dei suoi grandi compagni negli anni Ottanta (da Caproni a Sereni, ma anche Calvino e Sciascia), dopo la caduta del Muro e il tracollo della diatriba ideologica, è divenuto sempre più nell’ultimo quindicennio della sua vita un punto di riferimento non solo della poesia ma anche della società civile e dell’umanesimo, in un tempo nuovo, globalizzato e postumano, che non chiede «la profondità, né l’ardimento,/ ma la ripetizione di parole,/ la mimesi senza perché né come/ dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine», come scrisse, profeticamente, oltre quarant’anni fa, in «Presso il Bisenzio».
Su altri maestri il suo grande vantaggio è stato il mancato alimentarsi, per tutta la vita, al «lume di chiesa o di officina», giacché il suo profondo cristianesimo non ha mai avuto alcunché di chiesastico o fideistico. Così Mario ha avuto una estrema vecchiaia quanto mai vispa e incisiva (privilegio toccato in sorte davvero a pochi), ristabilendo un nesso tra poesia e società, che sembrava impossibile, dati i tempi. \
Ora che purtroppo il suo libro è chiuso per sempre, ripercorrendolo dalle «foci alle sorgenti», se ne riscontra sempre la vivacità. Uso la parola non a caso, giacché il patto con la vita è la prima fonte della poesia di Luzi, un patto raro tra i poeti del Novecento, per lo più tentati dal «male di vivere», o feriti da uno scacco, o al meglio abolizionisti della continuità, come Ungaretti. Rispetto ai barlumi e ai lampi, Luzi ha sempre tenuto in conto la pienezza dell’esperienza umana. Anche quando la malinconia leopardiana di La barca era preminente (o al tempo dell’«assenza» ermetica), anche allora in piena «dittatura» ungarettiana o montaliana, la voce del ventenne Luzi si distingue per un diverso statuto: vi è una scommessa al positivo, che travalica l’onda di malinconia, come nel canto delle «voci» che «balzano/ sopra noi»: «qui si prepara/ un giaciglio di porpora e un canto che culla/ per chi non ha potuto dormire/ sì dura era la pietra,/ sì acuminato l’amore». \
Poi nella piena rivelazione a se stesso, nell’uscita da ogni tentazione di «limbo», con il processo che dalle Primizie porta al Magma, sempre più si approfondisce il tono meditante, acquisendo una modalità stilistica, assai peculiare, che trattiene sempre un che di vocale o di parlato, pur in un dettato tendenzialmente alto della lingua, se non apertamente sublime, anche per gli scoscendimenti e i movimenti di accesso e di recesso che una stilistica del sublime sempre comporta. E penso che ora, a Novecento chiuso, leggere questo poeta che ha attraversato il suo secolo, quasi tutto, in fitto dialogo con i gusti e le epoche, ma sempre con un tono proprio, immerso nel suo viaggio, sempre interrogativo e non apodittico o sentenzioso, possa costituire ancora un essenziale alimento per gli ostinati a credere nella poesia, bene o male, come Luzi ha sempre mostrato di credere, e alla poesia come piena scommessa, non come pratica minimalista.
L’eredità di Luzi è già consegnata e iscritta da tempo nei versi di poeti più giovani, penso a De Angelis e a Viviani, che ne hanno fatto sangue di una loro ben diversa scrittura. Tra gli altri mi piace citare una nuovissima poesia di Eugenio De Signoribus, di dichiarato omaggio fin nel titolo, «Disputa pientina» (per i lunghi soggiorni di Luzi a Pienza): «Il pino che da tempo qui/ guarda queste valli dipinte/ mostra le sue varici nodose/ che in varie direzioni inciampano...
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