Il «mariuolo» che con una bustarella spedì all’inferno la Prima Repubblica

MilanoQuando il 27 agosto 2000, giorno in cui aveva finito di scontare la pena, si decise a concedere un’intervista al Giornale, esordì così: «Io vi farò vendere molte copie in più. Dunque, ve le posso fatturare». Non se ne fece nulla, ma le risposte di Mario Chiesa furono ugualmente interessanti. In particolare ricostruì gli attimi, concitatissimi, in cui l’allora sconosciuto Pm Antonio Di Pietro era entrato nel suo ufficio alla Baggina alla caccia della tangente appena pagata da un piccolo imprenditore di Monza, Luca Magni. «Io - spiegò Chiesa - avevo appena messo 7 milioni, le famose banconote siglate da Di Pietro, in un cassetto, lui ne cercava altri 30 o 40. Solo voi giornalisti potevate credere alla bufala che li avessi buttati nel cesso un attimo prima. Lui fece smontare il gabinetto ma trovò solo carta e pipì». La leggenda fondativa di Mani pulite non era vera, anche se ogni storia, ogni rivoluzione, si appoggia a un mito.
Mani pulite, ad ogni buon conto, cominciò così, fra un cassetto e uno sciacquone. E con due protagonisti ben scolpiti nell’immaginario popolare: il ruvido Pm con la faccia da poliziotto e il vocabolario traballante, il presidente del Pio Albergo Trivulzio che tanto pio non era. Svelto, semmai: in quei minuti fatali del 17 febbraio 1992, data spartiacque che segna di fatto la fine dell’Italia democristiana e socialista, l’epilogo della Prima repubblica nata sulle macerie fumanti della guerra e l’uscita di scena di una classe dirigente che sembrava inamovibile, Mario Chiesa riuscì a far sparire quei 30 milioni che Di Pietro cercava nel wc: «Li nascosi in una borsa, una borsa di cui nessuno si accorse». Un gesto che forse gli permise di sopravvivere nelle difficilissime settimane seguenti, ma non lo salvò dall’odio popolare e dall’inchiesta che di lì a poco prese la forza di un uragano.
In pochi giorni, ad Antonio Di Pietro fu affiancato il duo composto da Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. La gente tifava, peggio che a una finale dei mondiali, e si radunava sotto il palazzo di giustizia gridando: «Di Pietro, Davigo, Colombo andate fino in fondo».
Chiesa, un socialista doc molto legato a Bettino Craxi, si ritrovò a San Vittore nei guai fino al collo. A casa, in via Monterosa, Di Pietro aveva trovato un foglietto con tutte le dazioni arrivate al Psi. Non solo: l’ex moglie Laura Sala, stufa di dover combattere una logorante guerra per il divorzio a colpi di carta bollata, aveva inviato direttamente in Procura - come chiarì lui al Giornale - gli estremi dei suoi conti. Su quelli italiani c’erano dieci miliardi di lire, un bel gruzzolo anche per il rampante presidente dell’ente che si occupava dei vecchietti; su quello svizzero, ribattezzato «Levissima», altri ottocento milioni. Nel corso dell’interrogatorio, Di Pietro fu telegrafico: «L’acqua minerale è finita». Lui capì. Di Pietro sapeva molto e andava a colpo sicuro. La nomenklatura socialista era lontana mille miglia, non intuiva che il suo tempo era scaduto, non prendeva nemmeno in considerazione quell’indagine, scambiata per un granello di polvere negli ingranaggi. Bettino, mal consigliato e ormai già ammalato di diabete, compì l’errore supremo: definì Chiesa un «mariuolo». E insieme al mariuolo Bettino andò a fondo, fra insulti, sputi, monetine tirate in un clima sempre più da piazzale Loreto.
Chiesa si preparava, con Paolo Pillitteri a fine mandato, a correre come aspirante sindaco. Ma ormai stava venendo giù tutto. La mattina, fra le 7 e le 8 guardava il Tg5 e impallidiva: «Ma che ho fatto? Ma che ho fatto?», ripeteva. «Vedevo il mio nome dappertutto - aggiunse in quell’intervista - la musichetta del Tg5 è da allora il mio incubo».
Nel giro di qualche mese la frana travolse tutto il Psi, poi il pentapartito. Craxi scappò ad Hammamet e da lì continuò a inondare di fax gli amici italiani, fino alla morte nel gennaio 2000. Chiesa, invece sparì dalla circolazione: lo condannarono a 5 anni e 4 mesi, nel ’97 lo affidarono ai servizi sociali. Proprio nel Duemila aveva ripreso la sua vita: si era risposato, aveva avuto un figlio nato, per paura di qualche tumulto popolare, non a Niguarda ma nella privatissima e discretissima clinica San Pio X. Tornò anche ad Hammamet sulla tomba del capo e pianse.
Non si vergognava neanche un po’ ma aveva chiesto scusa ai vecchietti: «Noi socialisti eravamo arroganti. E avevamo addosso un senso di impunità. Un errore politico imperdonabile e madornale, era chiaro che prima o poi ci avrebbero mandato a casa». D’altra parte, se la prendeva con chi lo puntava con l’indice: «Il sistema era fatto così. La politica aveva costi altissimi. In un partito di tutti craxiani, l’unico modo per fare concorrenza agli altri socialisti era sovvenzionare le feste e gli incontri, i centri ricreativi e culturali». Una faticaccia e un fiume di denaro. Poi Di Pietro aveva spento la luce e Francesco Saverio Borrelli aveva raccomandato di spargere il sale sulle rovine di Tangentopoli.
Era tornato alla sua prima professione, quella di ingegnere. E intanto cercava di capire chi l’avesse tradito, fra gli alti papaveri del Psi, insieme alla ex moglie e a Magni. «Lavoro onestamente», assicurava serissimo. I carabinieri, invece, hanno più di un dubbio su quell’avverbio.

«Il lupo perde il pelo ma non il vizio», commenta disincantato Gerardo D’Ambrosio, allora coordinatore del Pool e oggi senatore del Pd. Certo, fa impressione vedere tornare in cronaca un personaggio già condannato dalla storia.

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